lunedì 14 marzo 2005

Sowing The Seeds Of Love

Marzo per me è sempre stato un mese di spostamenti, non saprei perché. Forse è solo un caso, ma è come se in questo periodo uscissi dal lungo letargo invernale e sentissi il bisogno di aprire le finestre e respirare a pieni polmoni l'aria di nuovi cambiamenti. L'anno scorso, tra febbraio e marzo, stavo facendo il primo lavoro ben retribuito della mia vita. Per un mese dovevo andare in giro per i piccoli paesini sperduti della montagna qui in Friuli a controllare com'erano stati spesi i soldi dei finanziamenti dell'Unione Europea. Detto così aveva il suo fascino, ma in realtà non ero proprio questo potente esattore temuto da tutti che andava a riscuotere le sue gabelle nelle provincie dell'Impero. Andavo semplicemente col mio registratorino portatile a casa di chiunque avesse usufruito dei finanziamenti per aprire agriturismi o cose simili e gli chiedevo di raccontarmi la sua esperienza. Non avevo mai avuto esperienze del genere, e con qualche dubbio iniziai a contattare le persone che avevo in lista. Arrivato il giorno del primo appuntamento, mentre passeggiavo in mezzo alla neve per trovare la cascina dove abitava il tizio che avevo contattato per quel pomeriggio, mi accorsi di avere la febbre alta. Riuscii a fare comunque la mia intervista, salii in macchina, raggiunsi l'autostrada, mi fermai in una piazzola di sosta e vomitai per circa 10 minuti. Poi tornai a casa guidando a 20 km all'ora, mi misi a letto con un secchio vuoto vicino dove vomitare ogni tanto e annullai tutti gli altri impegni della settimana. Non lessi in quell'influenza intestinale nessun messaggio di ostilità verso quel pur temporaneo lavoro. Ero deciso ad andare fino in fondo, anche perchè devo dire che non era poi così male...


Le settimane seguenti andarono meglio, in montagna c'erano le ultime nevicate, ma certi giorni sembrava che ci fosse già un sole primaverile. Le persone che intervistavo erano sempre molto gentili, spesso ci facevamo allegre bevute, così ad un certo punto spegnevo il registratore e ci abbandonavamo a quattro chiacchiere sulla montagna, che tutte queste persone amavano tanto da decidere di viverci, nonostante la desolazione di certi posti.
Una volta intervistai una vecchietta che gestiva un negozio di cesti di vimini, ma quel posto era pieno di ninnoli strani d'ogni tipo. Lei in realtà non aveva usufruito dei fondi stanziati, e dovevo chiederle perchè. Mi raccontò la triste storia della sua famiglia, e dei parenti cattivi che le avevano rubato l'eredità della sorella, compresi i suoi ricordi più cari. In quel caso, e non fu l'unico, feci più il consulente familiare che l'intervistatore mandato dalla Provincia di Udine, ma non mi dispiaceva affatto. Spesso tutte queste persone avevano delle cose da raccontare molto più interessanti del sapere che fine avesse fatto qualche migliaio di euro dell'Unione Europea. Anche perchè gli agriturismi, a ben vedere, non è che funzionassero proprio granchè bene. La maggior parte di chi aveva beneficiato dei fondi ne aveva approfittato per restrutturare la casa, e quella vecchina avrebbe fatto aggiustare la casa della sorella defunta, la casa che un tempo era di sua madre e nella quale era cresciuta, se quel cognato mostruoso non gliel'avesse usurpata per lasciarla abbandonata come una catapecchia qualsiasi. Le comprai una fatina verde, perchè se davvero esiste al mondo una vecchina come quella delle fiabe, è lei.



Il lavoro durò circa un mese, tra febbraio e marzo, e guidare in quei posti mi dava un'ebbrezza tutta particolare: i fiocchi di neve, andare piano per non scivolare sul ghiaccio in un burrone, il sole riflesso su quel manto bianco che quasi accecava... Insomma, dopo mesi di inattività e grigiore mi sentivo rinato, pronto a qualsiasi cosa, pronto a cambiare davvero vita. Ed ero stregato dal cd che ascoltavo sempre, durante quei viaggi. Era Piccoli fragilissimi film di Paolo Benvegnù.

Cerchi nell'acqua

Frantumare le distanze, superare resistenze
E riconoscersi per creare
Camminare senza chiedersi perchè

Il tuo viso, le mie mani
Sono la stessa gioia immensa
E' luce invisibile da succhiare
Camminare senza chiedersi perchè

E fermarsi un istante per considerare
Che il respiro è un dettaglio che ci rende uguali
Come cerchi nell'acqua che non sanno nuotare
Si infrangono

Frantumare le distanze, superare resistenze
E riconoscersi per creare
Camminare senza chiedersi perchè


E fermarsi un istante per considerare
Che ogni istante si scioglie in quello a venire
Come cerchi nell'acqua che non sanno nuotare
Si infrangono, si infrangono...


Quando finii quel lavoro e consegnai le interviste non mi sentivo di nuovo libero, perché la libertà di non avere impegni è spesso una prigione ancora peggiore dell'averne troppi. Dipendere da qualcosa o da qualcuno significava per me avere degli obiettivi che da solo non ero in grado di pormi. Allora organizzai altri viaggi, alcuni li sognai soltanto, ma in quel momento sarebbe bastato un attimo, una parola, un gesto perchè decidessi di partire e di affrontare la vita come non avevo mai fatto. Allo stesso tempo sarebbe bastato un rifiuto, una cosa non detta, un cellulare spento per bloccare sul nascere quello che ancora doveva iniziare. Non potevo fare una rivoluzione nella mia vita per me soltanto. Aspettavo una popolazione oppressa da salvare, per prendere in mano le armi, o anche un bastone trovato per terra, e combattere per il mio ideale. Quella popolazione oppressa aveva un nome e un indirizzo, e non rispose alla telefonata in cui le avrei chiesto se potevo salvarla. A volte penso che sia la stessa persona di cui parlano i Perturbazione, nel loro ultimo disco. La ascolto sempre in treno, in questo periodo.

Seconda Persona

Se sapessi quante notti
passo a ripensare a te
quanto tempo e quanto spazio invece
passano di giorno

avrei voluto, avrei potuto
e ancora non vorrei
sarà il fiato che mi manca
o forse non ne ho

a me da questa parte del telefono
a me da questa parte...

gli anni sono i tuoi capelli
un po’ più lunghi e poi tagliati
ed io li ho visti, immaginati
senza avvicinarmi mai

non so dire se desidero
per me soltanto un vuoto
o se è l’immenso desiderio
senza fine che ho di te

di te da questa parte del telefono
di te da questa parte...



Strano, è già passato un anno eppure a volte tutto mi sembra così lontano. Ora la mia macchina è stata sostituita da treni sporchi e perennemente in ritardo, e le montagne che vedo da qui non sono quelle in cui giravo nel profondo Nordest. Non credo più nelle rivoluzioni della mia vita, anche perchè ho perso per strada troppe persone.

L'ultima volta che ho creduto in qualcosa è stato due settimane fa, quando mi sono trasferito a Torino per la prima volta, con tutte le valigie. Nevicava anche lì, proprio come nel marzo dell'anno scorso, quando facevo le interviste. Avrò avuto addosso 50 chili tra vestiti, cibo e il fondamentale lettore dvd con tutta la mia raccolta di film. Non avevo ancora le chiavi del mio nuovo appartamento, e quando sono arrivato non c'era nessuno che mi potesse aprire la porta per poggiare i bagagli. Per non arrivare tardi al corso che sto frequentando, dovevo trascinarmi quel quintale di roba addosso per almeno 3 chilometri, e dopo aver camminato per 5 metri stavo già male. Mi facevo strada tra la gente barcollando come un barbone ubriaco, con lo zaino sulle spalle, una borsa a tracolla, il borsone in una mano e il lettore dvd nell'altra. Mi fermavo a rifiatare ogni minuto, ma in quelle condizioni ci avrei messo un'ora. A Torino poi i porticati sembra non finiscano mai, come le gallerie sulle alpi. Avevo percorso 300 metri dalla stazione in circa mezzora, quando mi sono fermato per prendere il telefono nella tasca del cappotto. Sudavo. Era mio papà che doveva dirmi non ricordo cosa, e così ne ho approfittato per rifiatare. Poggiate le valigie, ho alzato lo sguardo ancora confuso per lo sforzo, e ho visto questo.


Nell'istante in cui l'ho visto, mi è arrivato un messaggio di Alessia, la mia nuova compagna di appartamento, che era a casa e quindi poteva aprirmi la porta e darmi le chiavi. Ringraziai col cuore L'associazione Informazioni su Cristo per l'illuminazione e mi avviai verso la casa che mi ospiterà per qualche mese. Perchè si, pare che io a marzo non riesca proprio a stare fermo. Che poi, guarda la coincidenza, proprio poche settimane fa ho parlato con il responsabile di Slow Food Friuli, per un'opportunità di lavoro. Gli dissi che per pochi mesi mi sarei trasferito a Torino, per il corso che sto facendo, e lui fece, un po' seccato: "Eh, però ad un certo punto bisogna smettere di viaggiare e di fare gli studenti, bisogna piantare le radici da qualche parte". "Ci ho provato - avrei voluto dirgli - ma che colpa ne ho se le mie radici non attecchiscono, che colpa ne ho io se lei un anno fa non ha risposto a quella telefonata. Però, sa, ogni marzo io ci riprovo, a piantare un semino da qualche parte". Che poi c'era una canzone dei... dei Tears For Fears mi pare, che diceva...

And anything is possible when you're
Sowing the seeds of love

domenica 13 marzo 2005

L’ombra e la grazia

Ci sono tante cose che un ragazzo di 18 anni desidera fare, quando riesce a ottenere la patente. A me bastava passare sotto casa di Chiara, dopo aver riaccompagnato gli amici alla fine di un sabato sera come tanti altri. Non abitava tanto distante da me, dovevo fare una deviazione di pochi chilometri ed ero già nella sua via. Una lunga curva di preparazione, un'occhiata alla sua finestra per vedere se la luce era ancora accesa, e poi scivolavo via nel buio, cantando con in sottofondo Pugni chiusi dei Ribelli.

Pugni chiusi
Non ho più speranze
In me c'è la notte più nera

Chiara, il mio primo amore platonico. O forse non era il primo, se contiamo la ragazzina con la pelliccia che veniva a catechismo con me, quando preparavamo la prima comunione. Ma a quella non avevo mai parlato, a Chiara si. Ricordo ancora il primo giorno in cui la vidi. Eravamo a casa di Giorgio, un mio amico, e avevamo organizzato una festa per conoscere delle ragazze, quasi tutte della mia scuola. Lei aveva i pantaloni marroni, una giacca a quadretti in tinta e una camicetta rosa col pizzo da bambina. Non un filo di trucco, e un ciuffo di capelli castani che ogni tanto le cadeva sugli occhi. Il suo era il sorriso, innocente e malizioso allo stesso tempo, di Sophie Marceau nel Tempo delle mele. E i miei erano gli occhi di chi si sazia con uno sguardo. Mi bastava vederla camminare, ridere, scherzare con le amiche per essere felice di essere lì, in quella stanza. Ricorderò sempre il momento in cui mi si avvicinò, come se volesse dirmi qualcosa di importantissimo: "Mi potresti mettere una canzone?". Io mi sarei tagliato di netto il pollice con un coltello da cucina lì all'istante, se me l'avesse chiesto. Risposi: "Si".




La canzone era Imagine di John Lennon, e nel successivo gioco della chiave, che consisteva nel passarsi un filo con una chiave attaccata a una estremità attraverso le maniche delle giacche e delle camicie, mi sistemai accanto a lei per adorarla meglio. Tutto durò molto poco, alla fine era rimasta solo lei insieme a me e ai miei amici Giorgio e Gabriele, gli organizzatori della festa. Riusciva a provocarci pur rimanendo essenzialmente un angelo. Una cosa che ho spesso invidiato a molte ragazze, ma che a nessuna riusciva così bene come a lei. Quando suo padre la venne a riprendere all'inizio ci rimasi male, ma avevo ancora davanti almeno quattro anni di liceo per avvicinarmi a lei. Alla fine, manco a dirlo, non ci riuscii. Potevo solo guardarla da lontano, ammirarla, sognarla, ma appena mi rivolgeva la parola rimanevo a bocca aperta e dovevo pensare qualche secondo prima di dire una banale frase di circostanza. Provavo in sua presenza una perturbazione molto simile a quella che viene definita sindrome di Stendhal.

Con la fine del liceo, scelsi di andare a studiare dove studiava lei, ovvero a Padova. Tutto il resto non era semplicemente in secondo piano. Non contava proprio nulla. Il mio primo anno di università ci vedevamo spesso, passeggiavamo, andavamo al cinema, ma ero lontanissimo da ogni proposito di conquista. La desideravo in un modo in cui non ho mai desiderato nessuno, ne sono certo. Desideravo che esistesse, nient'altro. Quell'anno finii di scrivere il libro dei miei 18 anni, che parlava della storia di me e di Chiara. Il finale era quello che avrei veramente voluto. Non ci sposavamo, non la baciavo neppure, ma scoprivo di essere veramente importante per lei, e che non ci saremmo mai allontanati, qualsiasi cosa fosse successa. Davamo un nome a una stella, che forse ce l'aveva anche già, ma da quel momento aveva un nome nostro. In quel modo ogni volta che l'avessi pensata, o avessi avuto bisogno di lei, avrei potuto guardare quella stella, la nostra stella, e siccome lei avrebbe fatto altrettanto i nostri pensieri si sarebbero incontrati lassù, e ci avrebbero fatti sentire più vicini.
Il problema però non era solo individuare quella stella tra milioni di stelle e ricordarsene. Il problema era che lei non aveva mai saputo nulla di quella stella. Decisi che le avrei dato quel libro, ma quando lo rilessi mi vergognai e lo richiusi in un pacco di cartone della Sweet Music, il mailorder che usavo per ordinare i cd all'epoca. E lì rimase per anni e anni senza che mai nessuno lo aprisse.

Il libro dei miei 18 anni



Il libro dei miei 18 anni iniziava con una citazione dall'Iperione o l'eremita in Grecia di Hölderlin, un romanzo di formazione in forma epistolare che riassumeva perfettamente il percorso che avevo fatto (o avevo pensato di fare) assieme a Chiara. Questo era pressappoco l'inizio:

"Ho veduto una sola volta l'unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l'ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera dell'umana natura e delle cose esistenti. Non vi domando più dove essa è: è esistita nel mondo e può tornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa sia, l'ho veduta, l'ho conosciuta. O voi, che cercate quanto vi è di più alto e di più perfetto, nella profondità della sapienza, nel tumulto dell'azione, nel buio del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe e al di sopra delle stelle! Conoscete il suo nome? Il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è..."

Ci pensai un po' su e poi lessi: "Bellezza". Ma in quel momento non pensavo a un concetto di bellezza astratta, o idealizzata. Pensavo a lei.

Chiara non era poi così bella, ma aveva una grazia particolare che la rendeva oggetto del desiderio per persone in apparenza diversissime. Ricordo che una delle cose che più mi colpì, quando andai la prima volta a casa sua, fu una fotografia poggiata sul mobile in salotto. C'era lei con un tutù da ballerina, poco prima del saggio di fine anno. Aveva i capelli legati, un vestitino delizioso e quel sorriso imbarazzato delle foto di circostanza. Era un bellissimo sorriso, che nonostante fosse stato immortalato sulla pellicola in una data precisa, sembrava eterno. Non aveva il fisico da ballerina di danza classica, e forse neanche le movenze. Ma io, in ogni suo movimento, vedevo una luce che non avevo mai visto in vita mia. Una scia di stelle, forse. Se penso adesso, a cosa mi ricorda, mi vengono in mente solo delle immagini che non c'entrano nulla, ma che forse rendono l'idea di cosa abbia significato per me, anche se in questo momento ha un figlio, una vita lontano da qui e non la sento più da anni.

Alphonse Mucha, La Danse, 1898



Uno dei primi cortometraggi della storia del cinema ha immortalato Annabelle Moore in un momento di quella che veniva chiamata Serpentine Dance, all'incirca nel 1894. Le tinte mutevoli del vestito dagli ampi drappeggi di Annabelle tentavano di riprodurre l'effetto dei balletti di Loie Fuller, che in quel periodo nei suoi spettacoli al Folies-Bergere affascinava artisti come Toulouse-Lautrec, Rodin e lo stesso Mucha. Lo spunto per questo nuovo tipo di danza fu casuale. Durante le prove di uno spettacolo qualcuno regalò a Loie una gonna di seta cinese trasparente, che ondeggiando dava la sensazione di un caleidoscopio di luci e di colori. Lei preparò così una danza nella quale aveva indosso quella gonna dai lunghi strascichi. Tramite bacchette nascoste tra i veli riusciva a far produrre ai suoi indumenti vari effetti luminosi: un giglio, una coppa d'oro, una grande violetta, una gigantesca farfalla...



Leni Riefenstahl, con il suo balletto mistico e sensuale di fronte al mare nel film Der Heilige Berg di Arnold Franck (1926, in italiano La Montagna dell'Amore) riuscì a far dire ad Adolf Hitler che quella era una delle cose più belle che avesse mai visto. Il personaggio femminile interpretato da Leni Riefenstahl si chiama Diotima, e durante le riprese non c'erano controfigure. Tutte le scene più pericolose (Diotima scala montagne, pratica una sorta di free climbing a piedi nudi, viene travolta da valanghe, sfida i rigori del ghiaccio a 28 gradi sotto lo zero) sono filmate direttamente senza nessun artificio.



Due immagini tratte dal manga Yokohama Kaidashi Kikou di Hitoshi Ashitano







Non so esattamente in cosa queste immagini possano ricordare la Chiara che ho in mente, io non l'ho neanche mai vista ballare. Eppure mi pare quasi di vederla, mentre entra in scena con indosso il tutù che ho ammirato in quella foto sul mobile, nel suo salotto, quando avevo 18 anni.
Se non la grazia, della ballerina aveva l'inafferrabilità di chi cerca di sfuggire, con movimenti a volte quasi impercettibili, a volte ariosi e potenti, non tanto alle leggi della gravità quanto a quelle del tempo, permettendo a chi guarda di fare altrettanto. Per questo, credo, non potrò mai ringraziarla abbastanza. Ma naturalmente non glielo dirò mai.


Lo sguardo e l'attesa sono l'attitudine che corrisponde al bello.
Fin quando si può concepire, volere, desiderare, il bello non appare.
Questa è la ragione per cui, in ogni bellezza, c'è contraddizione, amarezza, assenza irriducibili.

Simone Weil, L'ombra e la grazia, 1947

mercoledì 2 marzo 2005

Alla ricerca di sé

Suono il campanello e mi risponde una voce familiare: "Sali!". Mentre salgo le cinque, lunghe rampe di scale mi manca il fiato. Giunto sull'uscio, mentre aspetto ansimante che qualcuno apra la porta, mi sento straniero in terra straniera, un povero viandante che porta con sé solo quel poco che gli basta, insieme a tutto quello che conserva dentro: i ricordi dei viaggi passati, un bagaglio di speranze e delusioni che per gli altri non sono altro che valigie vuote, non servono a nulla. E mentre entro, penso a quella frase di Kafka, che avevo letto tanto tempo fa:

Ogni uomo porta in se stesso una camera.
È un fatto di cui il nostro stesso udito ci dà conferma.
Quando si cammina in fretta e si tende l'orecchio, specie di notte,
quando intorno a noi tutto è silenzio, si ode, ad esempio,
il tintinnio di uno specchio a muro non fissato bene.

Franz Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni e diari, Mondadori, p. 694

La porta si apre e il calore di una stanza viva mi invade, fiaccando ancora di più le mie residue forze. Poggio lo zaino, bevo un bicchiere d'acqua in piedi. Dico qualcosa per educazione, ma sono concentrato soltanto a cercare di regolarizzare il respiro. Conto: uno, due, tre. Uno, due, tre. Ecco, ora comincio a ragionare. E siccome l'ospite deve ristorarsi dopo il lungo viaggio, mangio e bevo un po’ di vino. Dopo cena, sorseggiando un caffè, il mio interlocutore si avventura in una discussione stimolante: i sogni. Ad un tratto si sente un rumore, un tintinnio, ma non si capisce bene da dove venga. "Saranno i vicini, o forse è caduto qualcosa nella stanza di là", dice lui. La conversazione riprende nel dubbio, ma io invece so cos'era. Doveva essere caduto qualcosa nella stanza che mi porto sempre appresso. Dentro di me, ogni giorno, mentre cammino. Forse un colpo di vento, forse un gatto. Allora sono entrato un attimo dentro a vedere cosa poteva essere successo...

La mia camera, nel luglio del 2003.



Pingu: Buongiorno dottore.

LDZ: Buongiorno, buongiorno, si sieda. Benissimo, vediamo, oggi vorrei che continuassimo a parlare dell'argomento di cui mi ha solo accennato alla fine della scorsa seduta, non so se ricorda...

Pingu: La mia ossessione per il dente rotto?

LDZ: Bravo, si, intendevo proprio quello. Era venuta fuori un'interessante correlazione tra questa sua, come ha detto, ossessione per il dente che si era scheggiato poco tempo fa e le insicurezze che l'avevano accompagnata fin da piccolo. Provi a raccontarmi qualcosa con le sue parole. Non si preoccupi, tengo acceso il registratore solo per prendere qualche appunto. Lo ascolteremo solo io e la dottoressa Amato, che poi sbobinerà il nastro.

Pingu: Dunque, le dicevo che poco prima della laurea mi scheggiai un dente mangiandomi le unghie, uno dei due davanti. Vede? Proprio questo. Lì per lì mi preoccupai e presi appuntamento con la mia dentista, che mi propose di ricostruirlo con una specie di gelatina applicata sul dente che poi si solidifica, e in un'ora fece il lavoro. Purtroppo durò solo pochi giorni, e il dente si ruppe ancora nello stesso punto. La dottoressa mi disse che ogni ricostruzione era inutile per una mia tendenza a digrignare i denti di notte, mentre dormo. L'ha chiamata...

LDZ: Bruxismo?

Pingu: Si, esattamente. Io non le dissi che mi si era spezzato tutte e due le volte mentre mi mangiavo le unghie. Evidentemente la colla usata non teneva abbastanza, almeno finchè non avessi smesso di mangiarmele. La dottoressa mi propose o un apparecchio da mettere ogni sera mentre dormivo o di farmi rivestire il dente di porcellana, dopo averlo limato. Rifiutai la prima ipotesi dicendole che non l'avrei mai messo, quell'apparecchio. Oppure a quel punto avrei dovuto tenerlo tutto il giorno, per evitare di mangiarmi le unghie quando ero nervoso. Rifiutai anche la seconda ipotesi, per l'alto costo e perchè l'idea di far limare un dente sano mi faceva venire i brividi. Così tenni quel piccolo difetto, che come vede ho ancora, ma lo scenario descritto dalla mia dentista di me che digrignavo i denti la notte mi causava non poche ansie. Appena sveglio, la mattina, toccavo il dente con la lingua ancora in dormiveglia, per accertarmi che non si fosse scheggiato ancor di più. Di giorno poi appena incrociavo uno specchio mi fermavo a guardare il dente, per scrutare ogni più piccola differenza dalla volta precedente. E il fatto di non notare nulla di diverso non bastava a tranquillizzarmi, anzi.

LDZ: Hai mai sognato di rompersi i denti, in quel periodo?

Pingu: Certo, moltissime volte. Non sono ancora convinto di digrignare i denti di notte, ma se mai ho iniziato a farlo è stato dopo quei fatti.

LDZ: Ma cosa le dava più fastidio, del suo dente rotto?

Pingu: Beh, a parte sentire qualcosa di appuntito sotto la lingua ogni volta che lo sfioravo, nulla. Certo, rimaneva il disagio di farmi vedere col dente rotto in pubblico, naturalmente.

LDZ: Ritiene che sia un difetto così rilevante agli occhi degli altri?

Pingu: Ma, ora molto meno, ma allora mi sembrava di si. Cercavo di aprire poco la bocca, per non farlo notare, ma non sempre era facile, anzi, attiravo ancora di più l'attenzione, credo.

LDZ: Le è mai capitato qualche episodio spiacevole per colpa di quel dente?

Pingu: No, direi di no. In parte mi ricorda un episodio della mia infanzia, quando soffrivo molto per un neo che avevo sotto l'occhio. Alle elementari no, ma alle medie spesso i compagni mi prendevano in giro per quel neo, e io odiavo quel mio segno di diversità. Volevo non avere difetti per essere come tutti gli altri, anche se chiunque ha dei difetti, in fondo. Ma allora stavo male perchè esteriormente mi sentivo diverso, seppur in un solo piccolo e insignificante particolare.

LDZ: E come affrontò la cosa?

Pingu: Beh, dovetti insistere con i miei genitori per farmelo togliere, dopo gli esami di terza media, così avrei iniziato le superiori con dei nuovi compagni che non potevano sapere nulla. Fu una cosa breve e indolore, mi è rimasto ancora il segno. Una piccola cicatrice, qui, proprio sotto l'occhio.

LDZ: E dopo cambiò qualcosa?

Pingu: Non più di tanto...

Il mio dente rotto

LDZ: Ora le spiego brevemente una cosa. Freud sosteneva che lo sviluppo psicosessuale del bambino avviene attraverso varie fasi. Il primo stadio, quello orale, è contraddistinto da uno stato d’immaturità e di totale dipendenza del neonato che vive ancora in simbiosi con la madre. Un soggetto, in un particolare periodo della sua vita, qualora si trovi di fronte a un ostacolo che non riesce per qualche motivo a superare, per reazione può in parte regredire alle fasi dello sviluppo sessuale precedenti. Ciò può causare dei conflitti che rischiano di generare patologie più gravi quali nevrosi, psicosi, fino alla follia vera e propria. Le faccio questo discorso perchè questa sua ossessione per i denti, questa sua insicurezza nel guardarsi la bocca allo specchio, mostra secondo me evidenti aspetti orali che spesso si riscontrano anche nei pazienti depressi. E lei, da quanto mi ha detto, ha sofferto di depressione negli ultimi anni, vero?

Pingu: Si, più o meno in questo stesso periodo, l’anno passato, per via di quella ragazza di cui le ho parlato la prima volta, ricorda?

LDZ: Si, certo. Come si ricorderà, nella nostra prima seduta mi ha detto che durante il periodo passato con quella ragazza, quando Lei era depresso era tuttavia instancabile nella sua ricerca d’amore. Si nutriva dell’oggetto del suo amore, e la sua stima di sé dipendeva unicamente o quasi dalla relazione con quell’oggetto. Di fronte al fallimento di quel rapporto è sprofondato nella melanconia senza riuscire a elaborare la perdita dell’oggetto e il lutto che ne consegue. E in questo caso la coincidenza temporale tra il declino della sua relazione e l'ossessione per il dente rotto non può passare inosservato...

Pingu: Si, forse ha ragione... Ma senta, il mancato superamento o la regressione alla fase orale può comportare anche disturbi di tipo... sessuale?

LDZ: In certi casi sicuramente, ma se fossi in lei non mi preoccuperei troppo di questo. E non si preoccupi se ha manifestato una preferenza verso il sesso orale attivo o passivo (sorride), le assicuro che è una cosa molto diffusa e non è affatto una patologia...

LDZ: Il problema nel suo caso è un'altro. Kierkegaard diceva che una giovane donna che perde il fidanzato, se si dispera, non prova dolore per il fidanzato perduto, ma per il Sé-senza-fidanzato. È il senso di fallimento personale, di impotenza e di inutilità che fa disperare, più dell’abbandono in sé. E, nel suo caso, prolungare psichicamente l'esistenza della donna che ha perduto tramite ricordi e aspettative un tempo legate a lei rende molto più difficile il distacco. Può anche darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore, no? Come diceva Freud, als Liebesobjekt...

Pingu: Già, als Liebesobjekt... Quindi secondo lei farei bene a chiamarla, senza però pensarla più come oggetto d'amore?

LDZ: Non vorrei che prendesse le mie parole come i consigli letti in una rubrica di cuori solitari, non è questo il punto. Prima di chiamarla dovrebbe aver ben chiaro che la sua autostima non può essere legata soltanto a una persona che ha conosciuto poco più di un anno fa, tutto qui. E che lei non è un uomo peggiore di com'era prima di averla incontrata, anzi.

Pingu: Si dottore, io credo di essere pronto per un passaggio del genere. Tra l'altro, non so se può esserci un legame tra le due cose, ma ho anche smesso di mangiarmi le unghie. Ora che il dente rotto è diventato più affilato mi facevo anche un po' male alle dita, e così ho smesso.

LDZ: Un buon inizio, direi che è un buon inizio...

Un acquarello di Karin boye intitolato Liv och död

Tutto a un tratto torno in me come svegliato all'improvviso da un sogno. Sono seduto sul divano che dovrò presto trasformare nel mio giaciglio per questa notte. La bottiglia di vino è finita da un pezzo, ma è ancora presto per andare a dormire. C'è tempo per vedere un film che avevo portato con me nello zaino. Infilo il dvd nel lettore, chiudo le luci e, stanco e un po' assopito, mi immergo nelle immagini che scorrono sullo schermo.

Marlin: Io devo trovare quella barca!
Dory: Una barca? Io l'ho vista una barca.
Marlin: L'hai vista?
Dory: Aha, è passata di qui un attimo fa.
Marlin: Era bianca?
Dory: Ciao. Sono Dory.
Marlin: Dove? Dove?
Dory: Oh, oh, oh. È andata...di là. È andata da quella parte. Seguimi!
Marlin: Grazie, grazie, mille volte grazie.
Dory: Figurati.


Marlin: Hey, aspetta!
Dory: Vuoi piantarla?
Marlin: Cosa?
Dory: Sto nuotando. L'oceano non è abbastanza grande per te?
Marlin: Eh?
Dory: Hai qualche problema, amico? Eh? Eh? Allora? Allora? Allora?
Ce l'hai con me? Si, si, oh, adesso si che ho paura.
Allora? Piantala di seguirmi, capito?
Marlin: Ma di che cosa stai parlando, mi facevi vedere dov'era andata la barca.
Dory: Una barca? Hey, io l'ho vista una barca, è passata di qui un attimo fa.
È andata... di là. È andata da quella parte. Seguimi!
Marlin: Un momento, aspetta un momento. Che cosa stai facendo,
me l'hai già detto da che parte è andata la barca.
Dory: Già detto? Oh, no...

Dory: Mi dispiace tanto, ma io soffro di perdite di memoria a breve termine.
Marlin: Perdite di memoria a breve termine? Non ci posso credere.
Dory: No, è vero! Dimentico le cose all'istante. Tutti così in famiglia.
Beh, insomma almeno credo che tutti... Ah... Che fine hanno fatto...
Posso aiutarla?
Marlin: Tu hai qualcosa che non va, davvero. Mi fai solo perdere tempo.


Dory: Hey, piccoletta! La chiamerò giuggiola
e la terrò sempre con me, sarà la mia piccola giuggiola.
Marlin: Attenta Dory, quella è una medusa!
Dory: Cattiva Giuggy! Sei cattiva Giuggy... Non toccarmi, non toccarmi!
Marlin: Non voglio toccare, voglio solo guardare.
Dory: Hey, come mai te non ti ha punto?
Marlin: Mi ha punto, solo che...
Dory: Ahi, ahi, ahi!
Marlin: Ferma! Io abito dentro un anemone, sono abituato a queste punture.
Dory: Ahi, ahi, ahi!
Marlin: Ferma! Non mi sembra grave, passerà presto.
Però d'ora in poi lo sappiamo. Non dobbiamo toccarle mai più.
Meno male che si trattava di una medusa piccola.

Dory: Fermati! Non te ne andare. Ti prego. Nessuno finora è mai rimasto così a lungo con me.
E se tu te ne vai, se tu te ne vai... Con te io mi ricordo le cose, è vero!
Stà a sentire: Fisherman 42... Uh, 42... Ah, me lo ricordo! Lo giuro, è qui!
Perchè quando ti vedo... Me lo sento, quando ti vedo io... mi sento a casa.
Ti prego, non voglio perdere tutto questo. Non voglio dimenticare.
Marlin: Mi dispiace Dory, ma io... Si.