giovedì 29 luglio 2004

Lost in translation

Certe volte succede. Incontriamo una persona, in momento in cui ci sentiamo davvero soli, davanti alla nostra vita e ai nostri problemi, e dal niente si crea un legame che solo un attimo dopo pare indissolubile. Sei capace di parlare con quella persona di cose di cui non riusciresti a parlare al tuo migliore amico. Un giorno fa non la conoscevi neppure, e ora ti sembra di non poterne più fare a meno. Ti chiedi com'è possibile, ti dici che non può succedere, non deve succedere, non è successo. Avevi solo bisogno di avere qualcuno vicino, e il caso ha voluto che fosse quella persona. Poi però tutto, dopo quel momento, ti riporta a lei. La tua solitudine ti riporta a lei. Magari, se la rivedrai tra qualche anno, non saprai più che cosa dirle, ma non dimenticherai mai quell'incontro.

Questa, più o meno, è la trama di Lost in Translation.



La prima sera che escono insieme, finiscono in un appartamento di gente conosciuta a una festa. Dopo qualche bicchiere, incomincia il karaoke. Si comincia con "God save the queen", poi lui canta "Peace, love and understanding" di Elvis Costello, e i testi delle canzoni cominciano a intrecciarsi con le loro vite.

As I walk through
This wicked world
Searchin’ for light in the darkness of insanity.
I ask myself
Is all hope lost?
Is there only pain and hatred, and misery?



Lei, sposata da poco, non è felice, perchè non si sente realizzata e suo marito la trascura. Vorrebbe che lui la capisse e le stesse più vicino, ma non sa come fare per attirare la sua attenzione.

Lei Canta "Brass in pocket" dei Pretenders.

Gonna use my arms
Gonna use my legs
Gonna use my style
Gonna use my sidestep
Gonna use my fingers
Gonna use my, my, my imagination
’cause I gonna make you see
There’s nobody else here
No one like me
I’m special so special
I gotta have some of your attention give it to me


Lui, sempre in giro per lavoro, è sposato da 25 anni con una moglie che ormai pensa soprattutto ai suoi figli, che crescono con un padre assente e lontano. Tra di loro non riescono più a parlare di niente, non si divertono più insieme, e lui forse ha capito che ormai non possono più tornare indietro.

Lui canta "More than this" dei Roxy Music.

I could feel at the time
There was no way of knowing
Fallen leaves in the night
Who can say where they're blowing
As free as the wind
And hopefully learning
Why the sea on the tide
Has no way of turning
More than this, you know there's nothing
More than this, tell me one thing
More than this, there's nothing



Mentre tornano a casa in taxi, all'alba, lui si addormenta, lei guarda fuori dal finestrino.
Ogni tanto si volta verso di lui, un po' incredula ma felice di essere lì, in quel momento.
In sottofondo si sente "Sometimes", dei My bloody valentine.

Close my eyes
Feel me now
I don't know how you could not love me now
You will know, with her feet down to the ground
Over there, and I want true love to grow
You can't hide, oh no, from the way I feel



Alla fine, come spesso capita negli incontri avvenuti per caso, due persone che un attimo prima hanno incrociato le loro strade ora devono separarsi, e riprendere il loro viaggio. Nei loro sguardi c'è di nuovo quel senso di mancanza che avevano all'inizio, nascosto dietro una finta indifferenza. Sentono che, pur essendosi conosciuti solo due giorni prima, si mancheranno. Forse è irrazionale, ma sarà così.
Si dicono un arrivederci che sa di addio, e ognuno va per la sua strada. Fa più paura, ora, sentirsi di nuovo soli. Vorrebbero dirsi grazie, e forse vorrebbero che quel grazie significasse "non andartene", ma le loro vite sono troppo distanti, per incontrarsi ancora. Poi un'ultima corsa, dietro di lei, ma non per restare, solo per salutarla un'ultima volta, per salutarla meglio. Con un abbraccio. Un piccolo bacio che dura un attimo. Grazie di essere stata lì, in quel momento. Quando si girano, per allontanarsi, sono decisi a non voltarsi indietro, ma sanno che non si dimenticheranno mai.


In sottofondo, come per mettere la parola fine a questa storia,
"Just like honey" dei Jesus & Mary Chain.


Walking back to you
Is the hardest thing that
I can do
That I can do for you
For you

martedì 27 luglio 2004

La fine del guestbook

In questi giorni una serie di avvenimenti simbolici ha attraversato la mia vita. Forse un po' per semplificarmi la vita, li riconduco tutti allo stesso significato: la fine di un periodo ben preciso, e l'inizio di una nuova fase. Da oggi (28 luglio, ndr) è stato chiuso il guestbook dei Baustelle, che leggevo più o meno dallo scorso aprile. Più che il guestbook dei Baustelle, dovrei dire il guestbook sul quale scrivevano i fans dei Baustelle. Ci si scriveva dei Baustelle e di argomenti a loro correlati, usando questo termine nella sua accezione più vasta, quasi onnicomprensiva. In effetti io stesso avrò scritto si e no due volte qualcosa riguardante i Baustelle. Più che quello che scrivevo, comunque, sono state le persone che ho trovato lì a cambiare la mia vita, in quest'ultimo anno.
La prima cosa che mi aveva colpito, di quello strano assemblaggio di persone, era che si scrivessero delle lettere e si mandassero dei pacchettini tra di loro così, senza neanche essersi mai visti, senza chiedere nulla in cambio, solo per far ascoltare a qualcun altro la propria musica, per conoscersi. Ho pensato che chi di questi tempi è capace di perdere un pomeriggio a preparare un cd o a scrivere una lettera a una persona che non ha mai visto solo per raccontarsi, doveva per forza essere speciale. Allora preparai anche io la mia prima compilation per raccontarmi: era "une femme douce". Da allora ne ho fatte tante altre, e mi sono raccontato così bene che alla fine posso dire di essermi fatto conoscere, da alcuni di loro.

Nei primi tempi in cui scrivevo sul guestbook, poi, avevo un sogno utopico: il guestbook - psicanalista. Io scrivevo le cose che mi passavano per la mente, e dalle reazioni degli altri riuscivo ad individuare i miei problemi. Non ebbi il coraggio di farlo, purtroppo, anche perchè non credo fosse un desiderio condiviso da parte degli altri, quello di fare un'autoanalisi di gruppo. Tornai a parlare di musica, ma ogni tanto penso che sarebbe stato bello. Ho sempre sognato di fare quelle discussioni di gruppo che andavano di moda negli anni '70, in cui si parla di sè per aprirsi e confrontarsi con gli altri. Una volta lo proposi anche ai miei amici Diego e a Martina: "dai, ci troviamo a casa mia, ci facciamo qualche domanda imbarazzante che abbia a che fare col sesso o con qualche trauma infantile, e appena individuiamo qualche debolezza cominciamo a scavare più a fondo". Il tutto da abbinare a un cineforum scelto con cura, naturalmente. Dopo un timido tentativo, in cui i due finirono distesi mezzi addormentati sul mio letto (ma la colpa era di Ken Park, film che aveva ben poco da dire), conclusi che la cosa era irrealizzabile.
L'idea mi era venuta vedendo Ecce Bombo, e le serate di autocoscienza in cui Michele (Nanni Moretti) e i suoi amici parlano dei loro problemi. Un po' per noia, un po' per capirsi. Una sera d'estate decidono di andare sulla spiaggia di Ostia per vedere l'alba, e mentre aspettano che il sole sorga cominciano a parlare delle loro vite, cominciando forse dalle cose più banali, di tutti i giorni. Le prime che vengono loro in mente. Proprio come succedeva nel guestbook dei Baustelle.


Goffredo: Ma non potremmo, intanto che aspettiamo l'alba, iniziare quelle riunioni di cui parlava Mirko. Parlare di noi, dei nostri rapporti con le donne. Parlare di noi, parlare di noi...

Cesare: A me la cosa interessa molto, però sono un po' imbarazzato. Io qui sembro l'unico...scusate ma io sono...contento. Mi piace il lavoro che faccio, sto bene con Flaminia. Dite voi, che ne so, io sarò realizzato.

Mirko: Il bancone su cui poggiava la vetrina dei sandwich e la macchina per gli espressi somigliava alla cassa da morto di mia nonna, e per un attimo la sentii sepolta lì, nel ghiaccio, in mezzo ai campari soda.

Michele: Sono stanco di questi film in cui ci stanno i tedeschi con la moto col sidecar che curvano prima di frenare. Grandi saloni, drappi. Grandi saloni, tutti nudi, 'mbriachi, che suonano al pianoforte, melodie. Tutti bambini, donne nude, tutti 'mbriachi.

Mirko: La notte, lì dentro, lì sotto, era gialliccia, solida, una crema di batteri, di virus, di germi ingrassati che noi frullavamo con le pernacchie dei nostri scappamenti.

Michele: Per cortesia basta...basta...

Mirko: Quello che scrivo la notte, riletto la mattina dopo già non mi piace più. Perchè?

Vito: Dovevo nascere cent'anni fa, nel 1848. Le barricate a Lipsia...a 22 anni avevo già fatto la comune di Parigi. Adesso, impiegato parastatale, con tutti i colleghi che passano tutte le ferie a seguire tutti i festival dell'Unità, con i balletti della Moldavia e con le ciocie importate dall'Ungheria. Gino Paoli, Pinocchio, Mike Bongiorno, Marilyn Monroe, Altafini, Gianni Morandi, Gianni Rivera, hanno avuto una funzione negli anni '60. Ma che stiamo facendo, ma che sta succedendo, ma quando vedremo il sole? Sto male, c'ho pure freddo.

Alla fine, quella mattina, il sole li sorprenderà dalla parte opposta rispetto a quella in cui lo stavano aspettando da ore. Mentre se ne accorgono delusi, passa un rigattiere in bici che spinge un carretto gridando a squarciagola "ecce bombooooo". Il senso, nel film e nella fine del guestbook, forse è tutto lì.

Da sinistra a destra: Goffredo, Vito, Michele, Cesare e Mirko.

lunedì 26 luglio 2004

Il povero artigliere

Ogni tanto, più del calendario, sono gli avvenimenti delle nostre vite a scandire il passaggio dei giorni, dei mesi, degli anni. Oggi non è il mio compleanno, non è il primo giorno dell'anno, nè l'ultimo, ma prima di addormentarmi, ieri sera, ho pensato: ho un anno di più.

Proprio l'estate scorsa, rivedendo Jules e Jim,
mi colpì molto un dialogo tra Albert, Jules e Jim, reduci dalla guerra.

Jules: Quello che e' brutto della guerra e' che priva l'uomo della sua lotta individuale.

Jim: E' vero, pero' io credo che ognuno possa lottare lo stesso, a parte la guerra. Mi ricordo un artigliere che ho conosciuto all'ospedale. Tornando da una licenza conobbe una ragazza in treno. Parlarono fra Nizza e Marsiglia. Sul marciapiede della stazione lei gli diede l'indirizzo. E per ben due anni, ogni giorno, lui le scrisse con frenesia dalla trincea, su carta da pacchi, al lume delle candele, mentre piovevano le granate, lettere sempre piu' intime. La prima cominciava con "cara signorina" e finiva con "i miei omaggi rispettosi". Nella terza la chiamava "fatina mia" e le domando' una fotografia. Poi divento' "mia adorata". Poi "le bacio le mani", poi "le bacio la fronte". Piu' tardi le descrive la fotografia che lei gli ha mandato, le parla del seno che ha intravisto sotto l'accappatoio. E poi passa a darle del tu: "ti amo tremendamente". Un giorno scrive alla madre della ragazza per chiederle la mano. E cosi si fidanza ufficialmente senza averla mai rivista.

La guerra continua, e le lettere diventano sempre piu' intime: "ti sogno sempre, amore mio", "carezzo i tuoi seni adorabili e ti stringo tutta nuda a me". Lei risponde un po' fredda, lui si arrabbia, la prega di non fare la civetta perche' lui puo' morire da un momento all'altro, ed era vero.

Vedi, Jules, per poter capire questa specie di amori epistolari bisogna aver conosciuto la violenza della guerra di trincea. Quella follia collettiva, la presenza della morte ad ogni minuto. Ecco un uomo che pur partecipando alla grande guerra ha saputo combattere ugualmente la sua piccola guerra privata. E conquistare completamente una donna da lontano solo con la persuasione. Quando arrivo' all'ospedale era come lei (Jim guarda verso Albert), ferito alla testa, ma non ebbe fortuna. E' morto dopo la trapanazione, la vigilia dell'armistizio.

Nella sua ultima lettera a quella ragazza scriveva: "i tuoi seni sono le sole spolette che amo". Le mostrero' delle fotografie di quell'artigliere: sfogliandole velocemente sembra che si muovano.

Anche Jules, durante la guerra, aveva scritto delle bellissime lettere a Cathe, e tutta la seconda parte del film è contraddistinta dallo scambio epistolare tra Jim e Cathe e dai malintesi generati da quel "dialogo tra sordi". Lettere bellissime, appassionate, lettere che possono convincere le persone a provare, a rinunciare, ad avvicinarsi, ad allontanarsi. Alla fine, però, come si fa a non pensare a quel povero artigliere, che con le sue lettere sperava solo di avvicinarsi a una realtà che, mentre scriveva, gli sembrava già meno lontana. Lettere pericolose, specchio di illusioni. Lettere che, una volta spedite, finiscono per popolare il cassetto di una scrivania, uno scaffale di legno, o una scatola, uno scrigno da cui tirarle fuori quando si sente la mancanza di chi le ha scritte, in quel preciso momento che poteva cambiare le nostre vite, se le avessimo lette in maniera diversa. Cambiano le persone e i sentimenti, al passare del tempo, mentre le lettere restano lì, immutabili, a descrivere quegli attimi. Forse è per questo che a volte, sfogliandole velocemente una dopo l'altra, sembrano delle fotografie sfuocate di un pensiero, reali come una vecchia immagine sbiadita, mai accadute nella realtà ma non per questo meno vivide, davanti ai nostri occhi.

giovedì 22 luglio 2004

Fototessere

Strana giornata...sono passati esattamente sette anni dalla morte del mio amico Alberto. Nel luglio del 1997, per un incidente in montagna. Sul Monte Sernio, qui in Friuli, e io abito in via Monte Sernio. Le coincidenze che capitano, neanche così raramente, nelle vite delle persone. L'ho sognato spesso, in questi anni, e nei sogni di solito mi dava dei consigli, o era malato, di qualche male incurabile. L'ho sognato spesso mentre andava in bicicletta, non so se aveva un significato preciso, forse dipendeva dal fatto che lui andava spesso in giro in bicicletta. Mi sono chiesto tante volte che consigli mi avrebbe dato davvero, soprattutto in questi ultimi due anni, in cui avrei avuto bisogno, più che in altri momenti, di uno sguardo lucido sulla mia vita. Qualche mese dopo la sua morte fu pubblicato un piccolo libricino, da un editore locale, con alcune poesie che aveva scritto in un arco di tempo imprecisato, nella sua adolescenza. L'idea di quei pensieri nascosti nella scrivania, che qualcuno aveva trovato quando lui non c'era più, mi ha fatto pensare spesso a cosa avrebbero potuto trovare mia mamma, o mia sorella, in simili circostanze. Tra spillette, bloc notes di Hello Kitty con pensieri scarabocchiati sopra, copertine di compilation, foto, lettere mai spedite, stelline di carta, pupazzi di Pingu, più che una raccolta di poesie credo che verrebbe fuori uno di quei libri illustrati per bambini, un po' schizofrenico ma alla fine con un suo senso, a saperlo trovare. Sbirciando tra le sue poesie, stasera, le prime a colpirmi sono state quelle in cui parla del suo approccio con la scrittura, di cui spesso avevamo discusso, in passato.

Ho paura delle grandi parole.
Ho paura di farmi male.
Così, inutilmente.
Ed è inutile l'assedio a un fortino di carta.

Il biglietto era bello,
pulito,
scritto con caratteri nitidi,
ispirava partecipata attenzione.
La mano lo reggeva con cautela
poi l'abbaglio, improvviso
il fuoco,
la cenere
cenere bella, pulita,
a disegnare fantastici disegni
sul pavimento.

Vorrei scrivere
un romanzo
sul biglietto del treno

Stasera poi sono andato al cinema all'aperto, in un piccolo paese vicino a Udine, dove proiettavano "Appuntamento a Belleville". Le sedie erano praticamente la scalinata di una chiesa, con tantissimi bambini assiepati sopra. Qualche genitore previdente aveva portato delle seggioline di plastica. Noi naturalmente no, e ci siamo seduti per terra, sui ciottoli. Il volume era alto e riusciva a coprire le urla dei bambini, per fortuna. Il film mi è piaciuto molto, parlava di un ciclista. Aveva qualcosa in comune con Alberto, si, forse la determinazione, o il fatto che era un po' taciturno, e un'immagine in particolare me l'ha ricordato. All'esterno era forse un po' freddo, ma con dietro un lato più infantile, e affettuoso, invisibile ai più. Proprio così.

Il personaggio per me più affascinante era però naturalmente il nano che squittiva, mi faceva morire dal ridere, soprattutto quando gli hanno rubato la borsetta dove teneva tutti i suoi averi, tra cui il suo passaporto. La foto non era venuta tanto bene, forse perchè le seggiole delle cabine per farsi le fototessere non erano della sua misura.

Il passaporto del nano mi ha riportato alla mente l'ultima volta che ho fatto delle fototessere. Era circa un mese fa, a Reggio Emilia, mentre passeggiavo di sera vicino ai giardini pubblici con Spery. Siccome era da un po' che dovevo farmi delle fototessere, passandoci di fianco non ho potuto resistere alla tentazione, anche se di solito mentre passeggi con un'amica di sera non è la prima cosa che ti viene in mente di fare. Ma poi ho pensato che certe occasioni non capitano tanto spesso...

Il risultato, anche se non è che io sia proprio altissimo, fu migliore di quello del povero nano.

martedì 20 luglio 2004

Sguardi

...nient'altro che la verita'...

Credo di essere in pericolo di morte.

Vuoi confessarti?

Ho avuto paura del fuoco.

giovedì 15 luglio 2004

Notting Hill

Penso di essere l'unico del mio corso di inglese, ma forse anche dei corsi precedenti, che invece di prendere in prestito le videocassette in lingua originale di, che ne so, "Ritratto di signora" o "Camera con vista", sceglie film come "Jason and the argonauts", o "Gladiator". Certo, così imparo che in inglese vello d'oro si dice "golden fleece", che la regione della Colchide si dice Colchis, che i tori affrontati da Giasone in una delle numerose prove per conquistare il vello d'oro avevano gli zoccoli "made of brass sharp enough to rip open a man from gullet to gizzard", e mille altre cose che mi saranno utilissime ai colloqui di lavoro o nei miei viaggi all'estero.

L'esercito di scheletri viventi, una delle prove che Giasone deve superare
per conquistare il vello d'oro nel mito degli Argonauti.

La signora addetta ai prestiti l'ultima volta però si è opposta alla mia scelta. Avevo deciso di prendere "The thin red line", ma mi ha fatto osservare che forse avrei avuto bisogno di dialoghi da tutti i giorni più che di sentir parlare di sesterzi, elicotteri, napalm o tori che soffiano fuoco dalle narici. Non potendo darle torto, ho preso "Notting Hill", per due motivi. Il primo è che la signora mi ha detto che Hugh Grant ha una pronuncia chiara e comprensibile. Il secondo motivo...beh...mi ricordo che un po' di tempo fa parlando con un mio amico pensavamo a quali dovevano essere i modelli a cui ispirarci per avere successo con le ragazze. Certo, ognuno doveva trovare un modello che gli fosse un minimo congeniale. Che ne so, non potevo scegliere Mel Gibson o Brad Pitt, per evidenti ragioni. Alla fine gli unici modelli di successo che realisticamente potevo prendere ad esempio erano De Niro in "Taxi driver" e Hugh Grant in "About a boy". Il primo, però, non avrebbe portato grosse novità alla vita che conduco adesso, e soprattutto non sarebbe stato tanto di successo con le ragazze, e allora si era deciso che il mio modello doveva essere Hugh Grant. Bello ma non appariscente, moderatamente colto, con quella timidezza impacciata che lo rende tenero e simpatico. Anche un po' sfigato, se vogliamo, ma un tipo di sfigato diverso dal mio eroe dell'adolescenza, che era appunto Travis in Taxi Driver. Quello le spaventava, le ragazze, mentre Hugh Grant è la classica persona che rassicura, ma con fantasia. Perfetto, dunque. Prendo Notting Hill così vedo un po' come fa lui, non si sa mai che possa servire.

Hugh Grant, che in "Notting Hill" impersona William Thacker,
il proprietario di una libreria specializzata in libri di viaggio.

E così stasera mi sono visto questo film completamente inutile, con una Julia Roberts al cui posto avrebbero potuto mettere una sagoma di cartone e non se ne sarebbe accorto nessuno, il tutto per studiare le tecniche di seduzione del mio modello. Alla fine in effetti mi ci ritrovavo. Sfigato, sempre lasciato dalle ragazze ma mai con rancore, timido e impacciato ma fantasioso, e un po' bambino. Mi mancava solo una libreria, ma impegnandomi un posto come commesso in qualche libreria sarei riuscito a trovarlo...per il resto quasi ci siamo, anzi, la mia mansarda è molto più accogliente di casa sua, anche se manca il compagno di appartamento un po' spostato e la stampa del quadro di Chagall, anche quelli rimediabili. Per chi non l'avesse visto, il quadro nella casa di William è una stampa de "La Mariee" di Chagall. Anche la famosa attrice che ha incontrato per caso ama quel quadro, e la prima volta che lei capita (sempre per caso) a casa sua scopriranno questa comune passione, resa un'elegante metafora dell'amore dal genio sottile degli sceneggiatori, in questo dialogo:

Anna: I can't believe you have that picture on your wall.
William: You like Chagall?
Anna: I do. It feels like how being in love should be. Floating through a dark blue sky.
William: With a goat playing the violin.
Anna: Yes, happiness wouldn't be happiness without a violin-playing goat.

Un'immagine de "La Mariee" di Chagall. Alla fine la famosa attrice regalerà l'originale,
che casualmente aveva in casa, a William, come segno del suo amore per lui.


Ormai dentro di me pensavo che William non era un modello così inarrivabile, anzi, quasi mi somigliava, ad esempio nella scena in cui chiedeva a tutti i suoi amici riuniti in un pub se aveva fatto bene a respingerla, quando era tornata da lui con quella faccia da museo delle cere a chiedergli se la voleva ancora. E tutti i suoi amici gli danno ragione, sperando solo che gli passi presto. Invece Hollywood ancora una volta doveva proprio metterci il classico finale con l'inseguimento disperato, la dichiarazione pubblica di amore per sempre, ecc. ecc...
Mentre riavvolgevo la videocassetta deluso pensavo che in effetti Hugh come modello non era male, e che l'idea di lavorare nel mondo dei libri non era proprio da buttare, anzi, ma in quel finale mieloso e scontato non mi ci vedevo proprio. Sarà che forse ultimamente di happy end anche brevi nelle mie storie ne ho visti pochi, ma proprio non riuscivo a immedesimarmi, a vederlo come un eroe, perchè alla fine non aveva fatto quasi niente per ottenere ciò che voleva. Vuoi mettere con Giasone, o Maximus. Ma in fondo, bisogna dirlo, aveva avuto successo, conquistando l'attrice dei suoi sogni. Non è da lì che ero partito? Non dovevo vederlo come un breviario su come devo comportarmi con le ragazze più che come un film?
E allora magari una versione di Pingu-Hugh Grant funziona davvero, con le donne. Posso sempre provare. Va bene, deciso. Da domani pantaloni con le pences, camicia con le maniche arrotolate, giacca poggiata con disinvoltura sulla spalla, capelli pettinati con la riga in mezzo e humor inglese. Chissà, se funziona...

Hugh Grant, il mio futuro modello nell'approccio con le ragazze.

mercoledì 14 luglio 2004

Una passeggiata nel parco

Sto vivendo un momento meraviglioso e irripetibile della mia vita. Tutto in me è una potenzialità inespressa, o una risorsa sprecata, che alla fine è lo stesso. Quest’estate se volessi potrei fare delle vacanze meravigliose, potrei conoscere la persona che mi cambierà la vita, potrei creare qualcosa di concreto per cercare di sentirmi realizzato, potrei prendere e partire per un’avventura, una storia, un mondo diverso da quello in cui ho sempre vissuto.

Ed invece passo questi pomeriggi d’inizio estate al telefono, per cercare di convincere decine di vecchiette a vaccinarsi contro l’influenza, il prossimo inverno. Molte mi prendono come un confidente, mi spiegano per filo e per segno i loro acciacchi. Chi ha l’artrite, chi problemi di cuore, chi la pressione alta, chi ha paura, chi è sola...ogni tanto qualcuna mi chiede se posso chiamarla ancora, per parlare un po'. Altre invece addossano a me (e all’azienda sanitaria) le colpe della loro vita infelice. Qualcuno invece non ha tempo, deve prepararsi per andare al mare. Io ascolto tutto, mentre mi spiegano come hanno resistito alla morte di un marito, o a una vita di solitudine, e poi non so cosa rispondere quando mi chiedono: "come farò quando non riuscirò più a muovermi? Perchè non ho nessuno". Una, sconsolata, mi fa: “succederà anche a lei, vedrà...”.

Alla fine verso sera esco, e fuori all’aria aperta mi sento più libero. Vado al corso di inglese e di fianco a me è seduta una ragazza dal viso stanco, ma con un bellissimo sorriso. Parla inglese con un lieve accento romano, e durante un'esercitazione stentata di conversazione mi racconta qualcosa di sè. Lavora qui da poco, e vive da sola con suo figlio di un anno. Ha il nome di un ragazzo tatuato sul braccio, e non è l’unico ricordo di lui che non potrà mai cancellare. Mentre la guardo penso che domenica vorrei portarli al parco...

...è un'afosa domenica di luglio, e mentre guido la carrozzina le racconto qualcosa di me, per farla ridere. Poi mi allontano per andare in bagno e vado a prenderle un gelato di nascosto. Mentre ci riposiamo su una panchina, all’ombra di un albero, mi racconta la sua vita, e ad un tratto le viene da piangere, ma un attimo dopo sorride, perchè sa che tanto ormai il peggio è passato. La sera a casa sua la aiuto a preparare da mangiare mentre addormenta suo figlio. In quel momento, mentre io rigiro il soffritto e lei lo culla nel lettino, penso che vorrei che lui fosse mio figlio. O che lo diventasse. Non voglio che lei diventi come una di quelle vecchine sole, che risponde a uno sconosciuto al telefono e gli dice che non ha nessuno. Mi avvicino, mi verrebbe da abbracciarla, ma aspetto che lo faccia lei per prima. Lei mi legge negli occhi, e mi abbraccia. Che giornata faticosa. Per la prima volta nella mia vita, in questa afosa domenica d’estate, mi sento davvero utile a qualcuno. La sera, mentre torno a casa in macchina, penso che la mia vita, in quel momento, può essere rappresentata dal finale di "enemies/friends" degli Hope of the States. Da quegli archi più ancora che da quelle parole:

Come on people
Keep your friends close
Your enemies won't matter in the end
In the end, in the end, in the end…
In the end, in the end, in the end…

Finita la canzone, improvvisamente fa giorno, e non sono più nella mia macchina.
Una voce rompe il silenzio, prima lontana e poi sempre più vicina:

”That’s all for today, we will continue next lesson. Bye.”

martedì 13 luglio 2004

Il mio monitor

La breve scossa di terremoto che si è sentita qui ieri pomeriggio sarebbe passata inosservata nella mia vita se pochi minuti dopo, quando tutto sembrava ormai finito, il mio monitor non avesse cominciato ad emettere strani scoppiettii. Ho cominciato a temere che potesse esplodermi di fronte ma, come Madre Teresa con i lebbrosi, davanti al male non indietreggiavo, perchè più della paura di essere ferito era grande il desiderio di curare. Dopo pochi secondi di scoppiettii, e dopo pochi minuti dal terremoto, il mio monitor ha esalato l'ultimo respiro. Non uno scoppio rumoroso, nessuna scintilla. Solo un ultimo scoppiettio, leggermente più forte degli altri, quasi un lamento, e poi il nulla. Si è spento così, mentre ero al suo capezzale. Aveva otto anni, ma sarebbe più corretto dire che l'avevo da otto anni, perchè in fabbrica non so quando era nato. Se diventerò un influente direttore marketing alla compaq, mi adopererò per far allegare ad ogni prodotto un piccolo passaporto, con sopra indicati una data di nascita, un luogo, una foto degli operai taiwanesi che lo hanno assemblato per un piatto di riso, sorridenti, e un loro indirizzo, semmai qualcuno volesse scrivergli.

Il mio vecchio monitor sulla scrivania, un'immagine che ormai fa parte del passato.

Dopo aver provato a riaccenderlo disperatamente, non ho potuto far altro che constatarne la morte. Ho lasciato il pc acceso, così, come un corpo senza la testa ma che si muove ancora, e ho cominciato seriamente a pensare che dovevo cambiarlo. Non ho mai dovuto comperare un monitor, perchè ho sempre avuto quello. Ora però dovevo sostituirlo, e la cosa mi sembrava assurda, ma inoppugnabile. La sera, a casa di Diego, sfogliavo qualche catalogo online, ma nessun monitor mi sembrava bello come quello. Ne cercai uno che gli somigliasse almeno un po', ma proprio non ce n'erano.

Lo spazio lasciato vuoto per sempre dal mio vecchio monitor.

Eppure è strano, pensai, in fondo un monitor dà solo forma a qualcosa che è al di fuori di lui. Qualsiasi monitor io colleghi al mio pc, ciò che vedrò sarà sempre la risultante di qualcosa che è dentro a quel pc, per cui uno dovrebbe valere l'altro. Eppure solo ora mi accorgevo che non è così, e che l'involucro che dava forma al mondo che avevo creato nel mio computer non esisteva in funzione di quel mondo, ma aveva un suo senso di esistere. Guardando il monitor vecchio in un angolo e il monitor nuovo al suo posto sulla scrivania, mi sforzai di pensare a quale fosse, quel senso.

Il mio nuovo monitor sulla scrivania.

Saranno i pesci attaccati sugli angoli, ma quelli li posso sempre spostare su quello nuovo. Sarà l'adesivo di Pingu che piange sotto la pioggia, sarà il cielo stellato, sarà l'adesivo della faccina giapponese sul pomello per regolare il volume. Tutte cose che posso benissimo mettere anche sul monitor nuovo, pensavo. Poi a un certo punto ho capito: che senso avrebbe avuto riportare sul monitor nuovo i segni che contraddistinguevano il monitor vecchio? Mi avrebbe solo fatto pensare al monitor vecchio, e al momento in cui avevo deciso di attaccarci quell'adesivo, e di metterci sopra un cielo stellato. Mi avrebbe solo fatto pensare al perchè di quel gesto che aveva avuto per me quel preciso significato, che resterà per sempre impresso sul mio vecchio monitor. Un perchè che so solo io, e pochi altri. No, non rifarò il cielo stellato sul mio nuovo monitor. La sua (e la mia) vita gli riserverà altri onori che non siano quelli di un altro monitor del passato che ormai è relegato in soffitta, tra gli scatoloni. Quel vecchio monitor, col suo cielo di stelle, rimarrà invece per sempre nei miei ricordi, oltre che nella mia soffitta, e ogni volta che vorrò ripensarci guarderò questa foto, scattata pochi minuti dopo quell'attimo in cui decisi di affidare a lui qualcosa di me.

Le lacrime di Pingu si confondono con la pioggia, sotto un cielo di stelle.

"L’effetto che essa produce su di me non è quello di restituire ciò che è abolito
(dal tempo, dalla distanza), ma di attestare che ciò che vedo è effettivamente stato."

(Roland Barthes, La camera chiara , Einaudi, Torino, 1980).

domenica 11 luglio 2004

Alice

Io mi so dar ottimi consigli,
ma poi seguirli mai non so
e per questo nei pasticci spesso son.

"Rifletti" è un ottimo consiglio,
però assai curiosa son
e mi piacciono venture e novità.

Ho imboccato il mio cammino
senza alcuna riflessione.
Senza pensar che tutto poi
si paga un dì, così.

Io mi so dar ottimi consigli,
ma poi seguirli mai non so.
Chissà quando la lezione imparerò!

giovedì 8 luglio 2004

Cartoline

Ieri mattina ho ricevuto tre cartoline. Mi chiedo che idea si sarebbe fatto il postino, se le avesse guardate una dopo l'altra (se io facessi il postino le guarderei tutte, ecco perchè non faccio il postino...). Probabilmente avrebbe pensato che ero uno sfigato amante degli smiths maniaco sessuale che vive in un mondo di sogni. Il che, a ben vedere, non è tanto distante dalla realtà...

Lo sfigato con i gladioli in mano che vorrebbe essere come Morrissey (questa per fortuna
era chiusa in una busta, se no di sicuro il postino avrebbe pensato che mi somigliava).

Una Lignano insolita...

Dreams are my reality...

martedì 6 luglio 2004

Happy teeth

Potrei passare ore in questo sito a vestire Babbie. Aggressiva, etnica, dolce e romantica...
e sempre con quella deliziosa musica in sottofondo che ti culla all'infinito.

Così Babbie è proprio carina.

Certo, il guardaroba è limitato, mancano il vestito da sera bianco di Cenerentola,
il cappello da cowboy,
ma soprattutto manca la t-shirt dell'estate, che presto sfoggerò per le strade,
in spiaggia, dal dentista...
Altro che le magliette brasiliane, il vero must dell'estate 2004 è la maglietta "happy teeth".

La versione sexy-canottiera da donna della t-shirt "happy teeth" per Babbie sarebbe perfetta...

lunedì 5 luglio 2004

I’ll be your mirror

Io sarò il tuo specchio
Rifletterò quello che sei, nel caso tu non lo sappia
Io sarò il vento, la pioggia e l'alba
La luce sulla tua porta che ti dice che sei a casa

Quando penserai che la notte ha scoperto i tuoi pensieri
Lascia che sia io a mostrarti che sei cieca
Ti prego abbassa le mani
Lascia che io ti veda

Per me è difficile credere che tu non sappia
Quanto sei bella
Ma se è così lasciami essere i tuoi occhi
Una mano nell'oscurità, così non dovrai avere paura

Quando penserai che la notte ha visitato i tuoi pensieri
E che dentro sei contorta e sgarbata
Lascia che sia io a mostrarti che sei cieca
Ti prego abbassa le mani
Lascia che io ti veda

Io sarò il tuo specchio

venerdì 2 luglio 2004

Pingu sceglie Trenitalia

Lo scorso marzo fui contattato da Matteo Monteverdi, responsabile programmi di marketing della divisione passeggeri di Trenitalia. Mi fece una proposta molto allettante: diventare testimonial unico della campagna pubblicitaria delle Ferrovie dello Stato nel 2004. Mi disse che secondo loro solo io ero in grado di trasformare i perenni ritardi dei treni in delicate e romantiche avventure. Dopo avermi visto, la gente avrebbe affrontato con sereno ottimismo le lunghe attese, gli scompartimenti lerci e puzzolenti, le lunghe code agli sportelli, felice di immedesimarsi nelle storie che mi avevano visto protagonista, sempre col sorriso sulle labbra. C’era già il copione di uno spot pubblicitario: nella prima inquadratura ero disteso sul letto, abbracciato a una bellissima ragazza bionda. In sottofondo si sentiva “besame mucho” in versione strumentale, suonata al piano. Nella seconda scena abbracciavo quella ragazza sulla porta, la baciavo sulla fronte e mi allontanavo, non si sa dove nè perchè. Era un addio o un arrivederci? Nell’ultima inquadratura camminavo nel sottopassaggio di una stazione con lo zaino in spalla. C'era Vinicio Capossela che cantava e suonava con la fisarmonica sempre “besame mucho”, ma in una versione molto più malinconica e struggente di quella di prima. Io lo guardavo sorridente, e gli lasciavo qualche spicciolo nel cappello. Mentre salivo sul treno, riecheggiavano in lontananza le ultime parole della canzone:

Besame, besame mucho, como si fuera esta noche, la ultima vez.
Besame, besame Mucho, que tengo miedo perderte, perderte despues...

In sovraimpressione una scritta a chiari caratteri bianchi, con sotto il logo di Trenitalia, recitava:

“E poi ci lamentiamo delle ferrovie, quando da grigie travertine arrugginite può nascere l'AMORE”
(questa, lo ammetto, era stata un’idea mia, riciclata da un vecchio sms...).

FINE

Il mondo di Pingu e quello di Trenitalia non erano però destinati a incontrarsi. L’organizzazione pachidermica di Trenitalia richiedeva l’approvazione del progetto da parte dei vertici del Cda, composto da vecchi e aridi matusa che optarono per una campagna dai toni più tradizionali. Come ricordo di quell’esperienza mi rimangono solo i prototipi di qualche manifesto, e ogni tanto immagino come sarebbe stato vedere le strade costellate da cartelloni giganti come questo.