lunedì 31 gennaio 2005

Sorriso di donna

Ho sempre sognato di avere una vita come quella di Henri Pierre Roché. A sessantaquattro anni decide di pubblicare il suo primo romanzo, Jules e Jim, e come nel libro di un esordiente vi si possono leggere dentro i ricordi di una vita. Ma non è la stessa cosa scrivere di ciò che stiamo vivendo o di quello che abbiamo vissuto. Dopo che è passato tanto tempo non c'è più quell'urgenza di raccontarsi, di trovare qualcuno che ci apprezzi, che divida con noi dubbi o paure. Non c'è neppure spazio per i rimpianti. Vedendo scorrere davanti agli occhi l'intera esistenza, riusciamo finalmente ad attribuire un senso a tutte le volte che abbiamo amato, litigato, sbagliato, ferito. E nel momento in cui trasferiamo i ricordi su un foglio di carta, forse proprio allora la nostra vita ne esce per la prima volta vincitrice, perchè si tratta di un bilancio in cui non contano i numeri delle giornate felici o di quelle tristi, ma soltanto le cose che quei momenti inutili e bellissimi ci hanno lasciato.

Cafe du Dome, Paris, 1925 (foto di André Kertész)

Roché aveva vissuto in un'epoca e soprattutto in un ambiente straordinari. Nella Parigi di inizio secolo anche chi aveva un ruolo da spettatore poteva dire di vivere un'esperienza unica. Non è da tutti essere amico di Braque e di Duchamp, avere l'onore di presentare Picasso a Gertrude Stein. O intrattenersi con Cocteau, Picabia ed Erik Satie. I punti di ritrovo erano i caffè la Rotonde o le Dôme a Montparnasse, per poi magari proseguire con una cena alla Closerie des Lilas...
Allora in quei posti giravano tanti artisti di lingua tedesca, originari dell'Europa dell'Est, dei Balcani e della Scandinavia. Dev'essere stato in uno di quei caffè che Roché ha conosciuto Franz Hessel, un giovane di Stettino che passava il tempo ad ammirare Parigi e a scrivere articoli per vivere e poesie per conquistare le ragazze. Franz e Henri Pierre diventarono amici. Fisicamente agli antipodi (alto, moro e con un fisico atletico il primo, tozzo, biondo e grassottello il secondo), erano uniti dalla passione per l'arte e per le donne, con le quali non potevano avere un approccio più diverso...

Quando conobbero la pittrice Helen Grund ne rimasero entrambi affascinati, ma Henri Pierre difficilmente avrebbe rinunciato alla sua autonomia, al suo vivere ogni esperienza pienamente senza mai sentirsi stretto da legami soffocanti. Franz invece la adorava come una dea, ed era pronto a sacrificarle tutto di sè. La amarono entrambi, in questi due modi differenti ma complementari, e sarebbe ingiusto chiedersi chi l'abbia amata di più, perchè non c'è sentimento che si presti peggio ai confronti dell'amore. Ognuno vorrebbe sentirsi unico, e forse in un certo modo anche lo è, ma è un'unicità che prescinde spesso da una graduatoria di valore. Allo stesso modo, rigirando la questione, è destinata a rimanere senza risposta la domanda che Henri Pierre stesso si pose quando scrisse il suo primo libro, Jules e Jim:

"Chi possiede di più una donna: colui che la prende o colui che la contempla?"

Henri Pierre non poteva darle quel che le offriva Franz, ma spesso ci si mette anche il destino, o la fatalità, ad impedirci di ottenere ciò che vogliamo. Quando le nostre decisioni sono appese a un impegno o a una promessa non mantenuta, però, forse non è il caso di insistere troppo. Non si tratta di rassegnazione, a volte semplicemente è giusto lasciare che le cose vadano come devono andare, a costo di conservarne gelosamente il rimpianto per tutta una vita.

Jim arrivò correndo al caffè alle sette e quattro minuti. Era in ritardo, come spesso gli capitava, per ottimismo. Era scontento di sè, e temette di non arrivare per primo all'appuntamento. Cercò Kathe e non la trovò. si sedette, aspettò un quarto d'ora, e pensò: «Una come lei può perfettamente essere venuta.... e, non trovandomi, essersene andata via alle sette e un minuto». Questo dubbio lo tormentò. Prese macchinalmente un giornale e si mise a guardarlo. Lo mise giù pensando: «Una come lei può aver attraversato rapidamente la sala, senza vedermi dietro il mio giornale, ed essersela squagliata ipso facto». Si ripetè: «Una come lei... ma insomma com'è, lei?». E si mise a pensare a Kathe direttamente, per la prima volta.

Fu poi Franz a sposare Helen, ma il loro legame con Parigi e con Henri Pierre restava sempre forte. Poi venne la prima guerra mondiale e ancora una volta i due amici, ora nemici per dei motivi che non potevano comprendere, rischiarono di perdersi. Franz scriveva a Helen appassionate lettere d'amore dal fronte, mentre Henri Pierre era riuscito ad evitare la prima linea per motivi di salute, lui che era stato sempre così sano. Franz scrisse molte lettere anche a lui, durante e dopo la guerra. E il suo primo libro, Romanza Parigina, è come una lunga lettera destinata all'amico (il Claude cui si rivolge non è altri che Roché), un viaggio tra i ricordi di una Parigi lontana ormai quanto la loro vita di allora. Tutto era cambiato, solo l'amore per Helen e la loro amicizia resistevano alla lontananza e alle gelosie.

Fin dal loro primo incontro credo avessero capito che non potevano fare a meno l'uno dell'altro, e anche negli anni seguenti continuarono a vedersi. Henri Pierre andò anche a trovarli nello chalet che avevano preso a Hohenschäftlarn, un tranquillo paesino immerso nelle foreste della Baviera, dove Franz e Helen vivevano con le loro due bambine. Ma neanche il dividersi l'amore di Helen riuscì ad allontanarli. Ogni pensiero, ogni crisi, ogni dubbio era fugato dall'armonia che regnava tra di loro quando erano insieme. E alla fine era sempre Henri Pierre ad andarsene, quando era il caso, ma mai per sempre. Restava soltanto fedele al suo carattere e alla vita che aveva scelto.

Jim era deciso a lasciare che succedesse quel che doveva succedere.
Faceva, col cuore e con le mani, come un piccolo bordo attorno a Kathe,
perchè lei non scivolasse fuori sbadatamente: ma muraglie non ne avrebbe costruite.


Venne infine la seconda guerra, e fu per loro più devastante della prima. Franz, internato in un campo di concentramento in Francia per le sue origini ebree, riusci a uscirne ma ne morì stremato poco dopo. E Henri Pierre? Lui si arrangiava ancora come poeta, scrittore, giornalista, mercante d'arte, consigliere di uomini ricchi facoltosi in cerca di pezzi da collezione o di nuovi artisti da scoprire...

Ma non poteva dimenticare il compagno con cui aveva diviso gli anni più incerti e fragili della sua vita. Quelli in cui era così facile innamorarsi e poi dimenticarsi di tutto dopo pochi minuti, sorseggiando un Pernod e parlando fino all'alba della vita, della morte e dell'amore. Henri Pierre scrisse così anche la sua versione di quegli anni, ma cambiò un po' il finale, come ultimo atto d'amore nei confronti di Helen e soprattutto di Franz, che più di tutti gli era sempre stato vicino. Le altre cose, invece, rimasero intatte sulla carta com'erano nella sua memoria, e com'erano state un tempo. Quando descrisse la figura di Kathe nel suo libro, non poteva non pensare all'incontro con Helen. Non poteva non ricordare le loro passeggiate lungo il muro di cinta del cimitero di Montparnasse, e tutte le cose che erano successe dopo. Aveva ancora negli occhi lo sguardo di lei, tanto simile a quelle statue greche che lui e Franz avevano ammirato sui libri d'arte.

"Kathe aveva il sorriso della statua dell'isola", scrisse. E a questo punto non sorprende incrociare questa frase con un brano di Romanza Parigina di Franz e ritrovarci lo stesso sorriso:

Le sue gote si arrossarono, e d'improvviso sulle sue labbra apparve il sorriso che conosciamo dalla testa di marmo di Calchi che ci ha mandato l'amico ateniese, il sorriso che la convenzione chiama arcaico, ma che ha continuato a vivere attraverso i secoli: i beati nel bassorilievo di Bamberga e quelli sulla tavola del Paradiso di Beato Angelico lo hanno ritrovato, nel duomo di Chartres sorride così un angelo, e nel Louvre il Battista o Bacco di Leonardo, e in realtà anche la Gioconda. Non è un sorriso di donna, non è quello dell'ammaliante seduttrice, come lo considerano molti. Lo hanno angeli e pagani, beati e santi e i primi dèi greci. Cosa significa uomo o donna quando un dio sorride?

Ma ancora meglio riescono a dare un senso a questa storia le parole usate dalla voce fuori campo nel film Jules e Jim di Truffaut, quando all'inizio viene descritto il viaggio dei due amici per vedere di persona quel sorriso che tanto cercavano, e che poi avrebbero ritrovato in Kathe, così come in Helen.

Era un viso di donna scolpito in modo rozzo, con un sorriso fermo e tranquillo che li colpì. La statua, scoperta di recente,era in un museo all'aperto in un'isola dell'Adriatico. Decisero di andare a vederla insieme, partirono subito. Si erano fatti fare due vestiti chiari, uguali. Era molto piu' bella e misteriosa di quanto avevano immaginato: la guardarono in silenzio. Ne parlarono soltanto il giorno dopo, avevano mai incontrato quel sorriso? Mai. Cosa avrebbero fatto se l'avessero incontrato? Lo avrebbero seguito.

Può essere riduttivo spiegare due vite con due romanzi, figuriamoci con una frase soltanto, ma in questo caso fu proprio un sorriso mai visto prima ad indicare la direzione in cui dovevano andare, senza poter tornare indietro. E anch'io, ogni volta che penso a come programmare la mia vita, penso a Henri Pierre e a Franz, ai loro libri e a quel sorriso che aspetto di seguire.

mercoledì 26 gennaio 2005

C’est le commerce!

A passi leggeri, cammino guardandomi intorno. C'è una vetrina con dei bellissimi mappamondi. Una ragazza davanti a me perde un guanto, si ferma di scatto e le finisco quasi contro: "Scusa". "Scusa tu", e proseguo. Come sono abitudinario, una volta che trovo una strada faccio sempre quella per paura di perdermi. Oggi per contraddirmi ne voglio fare una diversa...
Accidenti mi sa che mi sono perso, ma sono sempre nello stesso isolato, come posso e
ssermi perso? Per fortuna ho ancora tanto tempo, prima di prendere il treno che mi riporterà a casa. Dico "per fortuna" così per dire, in realtà a pensarci bene non so proprio cosa fare queste due ore. Non ho abbastanza tempo per chiamare qualche amico e raggiungerlo, ma ne ho troppo per trascorrerlo aspettando al freddo in stazione.

E così, riflettendo tra la folla e i piccioni, mi trovo davanti al Duomo. Ho proprio voglia di fare il turista qualsiasi. Che poi il turista qualsiasi difficilmente va in giro da solo. E poi, diciamocelo, non ho proprio l'aria del turista, neanche quando lo sono davvero. Quasi quasi mi metto a fotografare qualche giapponese che sta facendo foto ad altri giapponesi, magari stando attento a non farmi vedere. Bella idea. In ogni caso, vergognandomi non so di cosa, voglio fare una foto alla piazza. Qui ci sarò venuto una cinquantina di volte o anche di più e non ho mai fatto una foto...

Ogni tanto mi chiedo perchè mi fisso su certe cose. E mi dà persino fastidio essere così prevedibile. Solo perchè un posto mi sa di sfigati, ecco che non posso fare a meno di tornarci. E ridivento, di nuovo, abitudinario. Mai che pensi: questo non me l'aspettavo proprio da te, Alessio. E neanche stavolta, quindi, mi sorprende trovarmi a passare l'ora libera in una vecchia libreria che vende libri vecchi a un pubblico composto per la maggior parte da vecchi. E in mezzo ci sono io, che ringrazio sentitamente il padrone (vecchio) per avermi trovato proprio quel libro (vecchio) che cercavo da tempo. D'altra parte non mi è neanche del tutto chiaro il perchè stia cercando proprio quel libro, ma ogni tanto bisogna pur porsi degli obiettivi chiari nella vita.

Già che sono qui comincio a cercare qualche regalino da portare a casa, qualcosa che possa piacere alle persone a cui sto pensando in questo momento. Riesco sempre a trovare qualcosa di adatto, se mi ci metto. E' così bello e così facile fare regali. Ora provo ad andare al piano di sopra, dove non c'è mai nessuno e posso frugare con tutta la calma del mondo. Poggio la borsa, mi tolgo il cappotto, e come se fossi nel mio salotto comincio a cercare dentro agli scaffali. Ad un tratto il mio sguardo cade su una copertina. Il titolo mi piace, così prendo il libro in mano, lo apro in una pagina a caso, e leggo:

Una domenica, poi, giocammo a cittadino e cittadina distesi nell'erba del parco La Muette. Tirammo fuori le nostre provviste, carne fredda di charcutier, pane e frutta. Il cittadino strappò la bottiglia e la cittadina sbucciò le arance. Parlavamo di immaginari avvenimenti familiari, felici e tristi. E a ogni cosa seccante dicevamo: 'Que voulez-vous? C'est le commerce!', come avevamo sentito dire in una strada di periferia da una vecchia signora mentre guardava con aria serena un carro del latte che si rovesciava in una cunetta. Continuando a camminare immersi nella nostra giocosa conversazione ci perdemmo e giungemmo al calar delle tenebre nella pista delle corse vuota, sulla quale le tribune, i recinti e le stalle apparivano come carcasse o forche fantasma. Sulla strada c'era un albero che offriva un ramo basso per sedersi, e lì ci riposammo. Ella si appoggiò confidenzialmente alla mia spalla. Io pensai: qui sul mio braccio, contro il mio mantello, nel mio cuore custodisco la meraviglia che ancora nessuno conosce.

Si, penso proprio che lo prenderò...

sabato 22 gennaio 2005

L’io, lei e l’altro

Quando un anno mi fu consigliata la lettura de L'eterno fanciullo, l'archetipo del puer aeternus di Marie-Louise von Franz (1992, Red Edizioni, 340 pp.), ero sicuro che ne sarei rimasto colpito, e così è stato. Non c'era nulla che non sapessi già, ma la schiettezza della terminologia psicanalitica mi faceva percepire, per la prima volta in maniera così lucida e analitica, la mia condizione mentale come se fosse afflitta da una vera e propria malattia da individuare, combattere e in parte debellare. Chissà, forse era già un timido passo in avanti, nel tentativo di diventare una persona migliore. Certo che quando si comincia a leggere un libro perchè incuriositi da un'interpretazione psicanalitica del Piccolo Principe e poi ci si ritrova di fronte a se stessi, beh, non so proprio se è un buon segno... Ne trascrivo alcuni brani, ad uso e consumo dei curiosi ma soprattutto di chiunque vi si riconosca, almeno un po'.

In generale, identifichiamo con l'archetipo del Puer Aeternus l'uomo che rimane troppo a lungo nei limiti di una psicologia adolescenziale, che conserva cioè anche in età adulta i tratti caratteristici del giovane di diciassette o diciotto anni.

Le due manifestazioni tipiche dell’uomo che soffre di uno spiccato complesso materno sono, come ha sottolineato Carl Gustav Jung, l'omosessualità e il dongiovannismo. In quest'ultimo caso, l'uomo ricerca in ogni donna una figura di madre, l'immagine della donna assolutamente perfetta, pronta a concedere tutto all'uomo. Ciò che egli cerca è una dea madre, e ogni volta sarà costretto a scoprire che la donna con cui ha instaurato un rapporto non è che un normalissimo essere umano. Svanito anche il fascino dell'esperienza sessuale, egli la lascia deluso, solo per proiettare nuovamente la stessa immagine su un'altra donna. Ancora e ancora egli cerca la donna materna, che lo tenga fra le braccia e soddisfi ogni suo desiderio. Spesso, inoltre, l'atteggiamento del Don Giovanni è permeato del romanticismo tipico dell'adolescenza.

L'uomo bloccato da un complesso materno si troverà sempre a dover combattere contro la propria tendenza a rifugiarsi nella condizione del Puer Aeternus. E quale sarà allora la cura? Che cosa può fare un uomo quando scopre di soffrire di un complesso materno, che è un qualcosa che gli è capitato dall'esterno, qualcosa che non ha causato lui stesso? In Simboli della trasformazione Jung propone una terapia: il lavoro. Ma nel momento stesso in cui lo propone, un attimo di esitazione lo coglie: «E’ realmente così semplice? E’ realmente questa l’unica cura? Si può porre la questione in questi termini?» II lavoro è proprio quella parola sgradevole che nessun Puer Aeternus vuole sentir pronunciare, mentre Jung giunge alla conclusione che si tratta della risposta giusta.

In effetti, il Puer Aeternus è capace di lavorare (così come lo sono tutti i primitivi o le persone provviste di un Io debole) quando il lavoro lo affascina o quando si trova in uno stato di grande entusiasmo. In quel caso, allora, egli può lavorare anche per ventiquattr'ore dì seguito, o addirittura di più, fino a che non crolla. Ciò che non riesce a fare, invece, è lavorare in una giornata uggiosa e triste, quando il lavoro è noioso ed è necessario uno sforzo su se stessi per compierlo.

Il puer ha una grandissima ricchezza interiore, è dotato di una ricca fantasia, ma non la lascia fluire nella vita. Rifiuta di accettare la realtà per quella che è, ed ostacola la vita stessa. Spesso questo tipo di persona, maschio o femmina, si ciondola, indugia troppo su fantasie ed emozioni. Spreca la capacità di vivere, perchè la sua stessa ricchezza interiore, le fantasie, possono anche soffocarlo. Con questo tipo si ha la sensazione di trovarsi vicino ad una persona piena di potenzialità che non trova però il modo di realizzare. Spesso tali persone sono pervase da un senso di noia totalizzante, sono paralizzate da una forma di pigrizia, e tendono a perdersi nel mondo illusorio della fantasia. Ma la noia riflette proprio il sentimento soggettivo di non essere dentro il flusso della vita. La noia è sintomo di vita trattenuta. Le persone che trovano difficile avvicinarsi al proprio centro sperimentano se stesse solo quando soffrono.

Come uscire dalla vita fantastica dell'infanzia senza tuttavia smarrirne il valore? Come diventare adulti senza perdere il senso della totalità, della creatività e quella sensazione di essere realmente vivi che si prova durante la giovinezza? Si può anche essere cinici a questo proposito, e affermare che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, che qualcosa deve essere sacrificato. Sulla base dell'esperienza, però, penso che questo non sia propriamente corretto. Non voler rinunciare al mondo dell'infanzia è del tutto legittimo. Il problema è come crescere e diventare adulti senza perderlo.

mercoledì 19 gennaio 2005

Milano e Andrea

Settimane di viaggi, a cosa serva poi chi lo sa. Per me sono le esperienze umane che contano, alla fine. La prima tappa è stata a Milano, dovevo pernottare lì in attesa di una selezione tipicamente da Università italiana. Bollettini che si perdono, file per l'appello, file per andare in bagno, file per avere il foglietto con le domande, fila per restituirlo, fila per uscire.
Ma torniamo al pernottamento del giorno prima. Doveva ospitarmi un mio vecchio compagno delle elementari, anzi, il mio migliore amico delle elementari. Abbiamo comprato il primo poster di Madonna insieme, abbiamo sognato di andare a quel concerto insieme. Era nel suo giardino che per merenda mangiavamo erba gatta! Non lo vedevo da 19 anni, e la cosa sembrava un po' azzardata, a pensarci. D'altra parte erano state le nostre mamme a organizzare tutto. Pochi giorni prima, infatti, mia mamma aveva incontrato sua mamma: "Ah, Alessio va a Milano? Andrea ora vive là, perchè non lo mandi da lui, così si ritrovano dopo tanti anni!". Io, scettico, quando mi comunica la cosa le faccio presente che in 19 anni le persone cambiano, ma ormai è tutto programmato, non posso oppormi. E l'idea dell'incontro ha un suo fascino, del resto. Lo chiamo, giusto due parole, per dirgli che l'indomani quando arrivo in stazione ci sentiamo. Ma l'indomani nessuno risponderà, perchè il suo cellulare è spento...

questa situazione non può essere romantica
fine, basta, chiuso, tornerò quando dimentico

Non è stato l'unico ad abbandonarmi, quella notte, ma siccome in teoria dovevo dormire da lui la cosa era abbastanza seccante. Il piano di soccorso (ci vogliono sempre dei piani di soccorso) prevedeva comunque la telefonata a Luigi, il cugino della mamma. Grazie al cielo Luigi ha il cellulare acceso e, pur se avvertito alle 22.45, mi accoglie a braccia aperte come un profugo. Mi dà acqua e viveri (ma avevo già cenato), un letto caldo, un asciugamano (come si fa a partire per quattro giorni dimenticandosi l'asciugamano!) e mi fotocopia pure la pagina del tuttocittà con la via dove devo andare.
La mattina dopo, alle 7 di mattina, come un padre premuroso prende la macchina e mi accompagna alla fermata del metrò (700 metri circa) facendomi tutte le raccomandazioni del caso. Intorno a me gente assonnata e incazzata, ma lo sarei anch'io se fossi in loro. Poi, dopo due passi a piedi, eccomi nella pace dell'Università Statale, tra il verde dei giardinetti e gli austeri palazzi d'epoca. "Sa dov'è l'Aula 208?". "Là, dove vede quel mucchio di gente...".

scrivi, taglia e cuci che monnezza di trapianto
so come scappare, non mi vedi quando piango?

All'uscita dall'Aula 208 sono soddisfatto, finalmente posso andarmene da lì. Ormai è ora di pranzo, e provo a cercare il bar vicino al Duomo dove mangiavo i panzerotti da piccolo, prima di andare alla Rinascente con mia sorella ad annusare i profumi. Solo quei panzerotti, come le madeleines di proustiana memoria, sarebbero stati capaci di riportarmi ai sognanti momenti della mia infanzia, calpestati la notte precedente da Andrea. Che poi io mi annoiavo mortalmente, ad annusare i profumi. Però ricordo come fosse ieri il giorno in cui mia sorella svenne appena entrata alla Rinascente, forse per il passaggio dal freddo gelido esterno al caldo soffocante interno. Si rianimò subito, senza che avessi il tempo di preoccuparmi per la sua sorte, ma poi ogni volta che entravo lì dentro e annusavo il tanfo orribile di tutti quei profumi mescolati tra loro, ne avvertivo la subdola pericolosità e trattenevo per un attimo il respiro.

Ma purtroppo anche il bar dei panzerotti era per me irraggiungibile. C'era ancora, si, ma 20 anni fa forse c'era meno gente, o forse non ero mai capitato lì durante la pausa pranzo degli uffici, o forse ero solo piccolo e non me lo ricordo...certo che affrontare una coda di un'ora per due panzerotti era troppo anche per me.
L'unico rifugio, in quella città ostile, rimaneva la libreria "Remainders" in Galleria Vittorio Emanuele, specializzata in edizioni fuori catalogo, il posto ideale per passare due orette nel centro di Milano senza avere nessuno intorno. In quel caos di vecchi libri senza alcun ordine logico, è impossibile trovare una cosa che stai cercando. Al massimo puoi frugare a caso, e imbatterti in qualche piacevole sorpresa. Ma a me serviva solo un posto dove meditare sul da farsi per un po', in attesa di decidere quando partire. Dopo due ore passate a cercare un vecchio volumetto anni '60 della collana "Medusa" della Mondadori, rivelatosi alla fine una chimera, mi sono deciso ad uscire.

sono tubi di ferro a vista, come chiodi nella minestra
sono un cesso di chitarrista e questa è la mia cazzo di festa

Prossima fermata, Torino. Ma prima, appena uscito da Galleria Vittorio Emanuele, devo affrontare la folla di ragazzine urlanti in attesa dei Blue, che stavano per affacciarsi da un balcone in piazza Duomo durante la trasmissione Trl di Mtv, credo. Magari hanno filmato anche me che scendo nella metropolitana mentre guardo quella scena patetica con aria curiosa e indifferente al tempo stesso, chissà...
Il tempo di un panino e un messaggio e il mio treno parte. Un vecchio placido riposa davanti a me, e mi addormento guardandolo. Al mio risveglio, bofonchio: "Che stazione è?". "Tovino", risponde. Boh, sarà francese, o ha solo la r moscia, e mentre me lo domando mezzo addormentato scendo, stropicciandomi gli occhi. A Torino mi sento già più a casa, che poi è strano perchè ci sono stato due volte, mentre a Milano ci andavo anche tre o quattro volte l'anno a trovare i nonni. Ma ora i nonni a Milano non ci sono più, e c'è la folla, lo smog, la mentalità aziendale, le ragazzine di Trl e tutti gli altri luoghi comuni che uno pensa siano solo luoghi comuni ma in realtà sono veri. Per esempio, uno a Milano si immagina i punkabbestia che litigano con i poliziotti, perchè portando in giro grossi cani senza museruola capita che ogni tanto mordano le persone. Questo è un luogo comune, però quando stai lì 24 ore e ti capita di vedere tre scene di punkabbestia che litigano con i poliziotti etc. etc. ti viene da pensare che non è solo un luogo comune. Sono i luoghi comuni il motivo per cui non amo più Milano come un tempo. O forse sarà perchè non ci sono più i nonni.

non riesco a vendere le bibbie per la strada
non riesco a bere dalle foglie la rugiada

A Torino invece se vai in giro dopo le 8 non vedi più nessuno, neanche in centro. Ecco un motivo per amare Torino, penso. Un altro motivo è che ci sono degli amici che si preoccupano per me, e non è poco. Se mi perdo vengono a recuperarmi, mi prendono i biglietti dell'autobus, mi fanno da mangiare, mi rimboccano le coperte, mi portano fuori a fare le passeggiate...

La sera c'è un concerto dei Fine before you came, mi pare proprio di averli già visti da qualche parte...in realtà lo ricordo benissimo, e per ricordarmelo ancora meglio ho comprato pure la loro maglietta. Sopra c'è il disegno di un uomo che spinge (o si appoggia con la testa su) un sasso. A me fa venire in mente Sisifo, quello che come supplizio doveva portare un enorme masso sulla cima di una collina, per poi vederlo rotolare giù ogni volta, per l'eternità. Da sempre è uno dei miei personaggi mitologici preferiti, Sisifo. Forse anche per questo ho comprato la maglietta. Mentre alla fine del concerto mi intrattenevo col batterista mi sono dimenticato di chiederglielo, se quell'immagine rappresentava davvero Sisifo o era solo una mia idea.

serve un modo, serve adesso, di sanare la partita
fuori gli arbitri e i palloni, andate via dalla mia vita

Il giorno dopo un'altra selezione, ma stavolta si tratta di un colloquio informale più che di un asettico test aziendale. "Qual'è il suo scrittore preferito?". "E la casa editrice che ama di più?". "Ma quando va in libreria, che cosa guarda?". Strano test, penso, e prendono pure appunti su un foglio alle mie risposte, boh. Dev'essere così, quando ti intervistano. Poi per il resto della giornata il sonno arretrato si presenta a chiedere il conto, più e più volte. La penultima volta capita dopo aver preso due arancini siciliani nella rosticceria di via Po (credo fosse via Po), servito dalle mani fatate di una ragazza dalle tette perfette. Di lì a poco crollerò sul divano e poi sul letto, ubriaco di vino e di sonno. La mattina dopo è già ora di ritornare a Udine, anche se non per molto tempo ancora.
Per poi sapere che Andrea aveva staccato il telefono perchè intrattiene una sordida storia di sesso con una ragazza di Vigevano, che era andata a trovarlo di sorpresa proprio quella sera (la fonte è sua mamma, mica un pettegolezzo così per dire). Si scusa, ma ormai è troppo tardi per riallacciare fili recisi da tempo. Si tratta di decidere del mio futuro, e certe cose ti condizionano più di altre che razionalmente dovrebbero condizionarti. Se esiste un destino, e Andrea era un suo strumento, allora io devo andare nella direzione che mi ha indicato. Ovvero, da un'altra parte. Se invece non esiste un destino predeterminato, allora posso benissimo adattarmi a una vita che non mi piace, tanto alla fine comunque vadano le cose l'uomo deve accettare la sofferenza e la mortalità come parte della sua natura (umana, appunto). C'è poi un terzo caso in cui lascio che le cose seguano il loro corso senza pensarci troppo. Tanto poi, come ho fatto la settimana scorsa mentre tornavo in treno verso casa, posso sempre mettermi le cuffie del walkman nelle orecchie e ascoltare Festa n°3 dei Babalot con un sorriso ebete stampato in faccia...

sono tubi di ferro a vista, come chiodi nella minestra
sono un cesso di chitarrista e questa è la mia cazzo di festa

martedì 11 gennaio 2005

La lettura e il broncocele

Oggi, mentre scorrevo distrattamente le note di un libro che sto leggendo, mi sono soffermato su una citazione. Nel 1875 Giuseppe Rovani, nell'introduzione del suo romanzo storico "Cento anni", scriveva:

«Di tutte le forme della letteratura e della poesia il romanzo è la più disprezzata, e per alcune classi di persone la più aborrita. - La lettura di un romanzo si fa, per solito, di nascosto e lontano possibilmente dagli occhi de' curiosi, press'a poco come quando si commette un peccato. - Se una ragazza è in odore di gran leggitrice di romanzi, storna da sè qualunque possibilità di matrimonio; la spina dorsale deviata, il broncocele, la clorosi, l'isterismo, l'epilessia, sono in una fanciulla, contro i giovanotti assestati che voglion metter casa, spauracchi meno spaventosi dell'abitudine a legger romanzi.»

La lettura che avevo sotto gli occhi era sufficientemente noiosa da permettermi di alzare lo sguardo, fissare il vuoto, e pensare: ma sarà vero? Certo, ci sarà un motivo per cui certe persone leggono molto e altre no. Il tempo, il lavoro, l'attitudine, il piacere personale, ma sentivo che non era tutto lì. Piano piano si faceva strada in me l'idea che una gran lettrice di romanzi celi in sè un qualcosa di malato, un morbo difficile da debellare, un male subdolo come la tisi. Che lo si chiami solitudine, o infelicità, poco cambia. Nell'incertezza allora, come sana amministratrice della mia casa, come angelo del focolare, tra una persona avida di storie fantastiche e una che legge al massimo il giornale dei programmi tv, avrei dovuto scegliere senza dubbio la seconda. Ma poi, malignamente, sono venuti a farmi visita, come streghe tentatrici, le immagini delle attrici di tre dei miei film preferiti. E d'un tratto, come l'Ebenezer Scrooge di Dickens, sono stato catapultato in un viaggio in cui tutto pareva volto a farmi cambiare idea. O forse no.

La prima a farmi visita è Agnes, la protagonista di Fucking Amal. Sono fuori dalla finestra della sua cameretta, e la vedo mentre accende lo stereo e mette su l'Adagio di Albinoni. Prende un sacchetto con dentro dei rasoi, e ha tutta l'aria dell'adolescente che trova insopportabile la sua vita, e perciò vorrebbe suicidarsi. Ma ad un tratto bussa alla porta suo padre, e deve nascondere in tutta fretta le sue intenzioni. Apre la porta chiusa a chiave, prende un libro a caso per fingere un'occupazione, e dice:

Agnes: Avanti.
Papà: Ciao. Ti ho preparato una tazza di tè. Come va.
Agnes: Stavo leggendo.
Papà: Ti senti triste?
Agnes: No.
Papà: E cos'è nche stavi leggendo? Ah, Edith Sodergren.
«Il giorno sospira verso la sera...»
Come...come dice, vediamo.
«Prendimi la mano, prendimi il braccio,
prendi il desiderio delle mie spalle strette.»
Agnes: Papà...
Papà: Va bene, come vuoi. Buonanotte.

Suo papà cercava di ricordare una poesia di Edith Sodergran, "Il giorno si fa freddo". Edith era una poetessa infelice e lesbica, come la figlia, ma questo suo papà non poteva certo immaginarlo...Quei versi, che provenivano dalle sue letture giovanili, ora gli mostravano meglio di qualsiasi altra cosa il dolore di Agnes. E' strano come spesso le persone, crescendo, si dimentichino di cosa provavano, quando erano adolescenti. O forse, come direbbe qualcuno, erano altri tempi. Anche se Edith Sodergran questa poesia l'aveva scritta intorno al 1920...

«Il giorno si fa freddo verso sera...
Bevi il calore dalla mia mano,
la mia mano ha lo stesso sangue della primavera.
Prendimi la mano, prendimi il braccio bianco,
prendi il desiderio delle mie spalle strette...
Sarebbe strano sentire,
una notte sola, una notte come questa,
il tuo capo pesante contro il mio petto.»

Il testo completo de "Il giorno si fa freddo", di Edith Sodergran.

Subito dopo volai, e fu un lungo viaggio, dalla Svezia di provincia a New York. Era sera, e in sottofondo si sentiva l'aria sulla quarta corda di Bach. Mi pare nella versione di Wendy Carlos, ma non potrei giurarci. Era l'interno di un bar, uno di quei bar con i camerieri strani, le luci soffuse e quell'atmosfera di solitudine e alienazione che si trova solo a New york, o forse solo nei film di Scorsese. Perchè se ce ne fosse soltanto uno a Udine, di bar così, ci andrei tutte le sere. Si vede un ragazzo che beve un caffè da solo, leggendo un libro. Sembra elegante. Una bellissima ragazza seduta a un tavolo lì di fronte lo guarda, ma lui non se ne accorge. Ad un tratto lei gli dice qualcosa, ma deve ripetere la frase due volte perchè lui non la stava ascoltando, assorto com'era nella lettura...

Marcy: Adoro quel libro.
Adoro quel libro.
Paul: Oh, si. Ah, certo. Per me Miller è favoloso.
Marcy: «Questo non è un libro, è un prolungato insulto.
E' uno scaracchio in faccia all'arte, un calcio in culo a divinità, bellezza e verità.»
O qualcosa del genere.
Paul: Accidenti.
Marcy: Non ricordo altro, però.
Paul: E' un libro che ho già letto. Voglio dire che lo sto rileggendo.
Non mi capita quasi mai di farlo ma...non so, mi piace più questo
che Tropico del capricorno, o Plexus, o Nexus.
Lo sa che Miller si dava un bacio da solo dopo aver mangiato bene?

Avrei tanto voluto ascoltare il resto della loro conversazione, un po' per voyeurismo e un po' per curiosità. Chissà com'è andata a finire, poi. Ma ad un certo punto ho cominciato a sentire i suoni sempre più lontani. Sono solo riuscito a capire che stavano parlando del cameriere, un tipo un po' strambo, e di fermacarte a forma di panino al formaggio, o qualcosa del genere. Chissà poi com'erano, quei fermacarte. A me sarebbero piaciuti sicuramente.

Macy aveva citato Miller, e non potevo fare a meno di immaginare me adolescente, mentre leggevo Tropico del Cancro dopo aver visto Fuori Orario di Scorsese. Lo leggevo nei bar, perchè qualche ragazza mi abbordasse con quella scusa, come nel film. Nessuna ragazza mi parlò, ma in ogni caso in quel momento sognavo solo una vita da clochard disperato nei bassifondi di Parigi, e lì erano contemplate al massimo delle prostitute fiaccate da una vita di stenti. Ma come potevo resistere alla forza, alla potenza di parole come queste:

«Non ho né soldi, né risorse, né speranze. Sono l'uomo piú felice del mondo. Un anno, sei mesi fa, pensavo d'essere un artista. Ora non lo penso piú, lo sono. Tutto quel che era letteratura, mi è cascato di dosso. Non ci sono piú libri da scrivere, grazie a Dio.
E questo allora? Questo non è un libro. È libello, calunnia, diffamazione. Ma non è un libro, nel senso usuale della parola. No, questo è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all'Arte, un calcio alla Divinità, all'Uomo, al Destino, al Tempo, all'Amore, alla Bellezza... a quel che vi pare.»

La prima pagina di Tropico del Cancro, di Henry Miller.

Era tempo di ripartire, e così rieccomi in un lampo in Europa, in Francia esattamente. Sembrava Parigi, proprio dov'era ambientato Tropico del cancro. Vedevo una camera, in un palazzo, c'era un ragazzo biondo che leggeva un libro e una ragazza che camminava nella stanza, e di tanto in tanto lo guardava. Lui comincia a leggere ad alta voce, e lei lo ascolta. E' davvero bellissima, altro che le prostitute che frequentava Miller... Mi sembra di riconoscere quelle parole, è un racconto di Edgar allan Poe, "Il Ritratto ovale".

Luigi: «Scorsi così nella vivida luce un quadro che prima m'era affatto sfuggito. Era il ritratto di una fanciulla, tenera eppur rigogliosa, quasi donna ormai. Diedi al quadro un'occhiata frettolosa, e poi chiusi gli occhi. Perché lo facessi, neppure io, dapprima, riuscii a comprenderlo. Ma mentre le mie palpebre restavano chiuse, analizzai rapidamente la ragione per cui le tenessi serrate a quel modo. Era stato un moto impulsivo per guadagnar tempo e pensare: per accertarmi che la vista non mi avesse ingannato; per acquietare la mia immaginazione, prima di volgere un altro sguardo, più calmo e sicuro. Di lì a pochi momenti ripresi a fissare il quadro.
Il ritratto, l'ho detto, era quello di una fanciulla. Solo la testa e le spalle, eseguite, per usare la denominazione tecnica, alla maniera di «vignette» molto simile allo stile delle teste predilette da Sully. Le braccia, il seno, fin le punte dei capelli irraggianti si fondevano impercettibilmente con l'ombra vaga ma densa che faceva da sfondo.
Come opera d'arte, nulla poteva essere più ammirevole del dipinto in quanto tale. Ma non era pensabile che a destare in me un'impressione così subitanea e violenta fosse stato l'alto livello dell'esecuzione o l'immortale bellezza del viso. E ancor meno era ammissibile che la mia immaginazione, strappata dal dormiveglia, avesse scambiato la testa per quella di una persona viva.
Infine, scoperto il vero segreto del suo effetto, mi abbandonai supino sul letto. Avevo scoperto che l'arcana magia del dipinto stava nell'espressione così vivida, così perfettamente conforme alla vita stessa.»

Nana: E' tuo questo libro?
Luigi: No, l'ho trovato qui.
Nana: Me lo dai?
Luigi: E' la nostra storia: un pittore che fa un ritratto del suo amore.
Vuoi che continui?
Nana: Si.

Luigi: «E, in verità, alcuni che avevano visto il ritratto parlavano sommessamente della sua somiglianza come di meraviglia grande, prova non meno dell'arte del pittore che del suo profondo amore per colei che così mirabilmente andava dipingendo. Ma alla fine, avvicinandosi l'opera al suo compimento, a nessuno fu più concesso di accedere alla torretta; poiché il pittore, invasato dall'ardore della sua creazione, di rado alzava gli occhi dalla tela, fosse anche per guardare il volto della sposa. E non voleva vedere che i colori che stendeva sulla tela erano tratti dalle guance di colei che gli sedeva accanto. E quando molte settimane furono trascorse e pochissimo restava da fare ancora - solo una pennellata sulla bocca e un tocco di colore all'occhio, lo spirito di lei guizzò ancora come la fiamma entro il becco di una lampada. E la pennellata fu data, e fu applicato il tocco di colore; e, per un attimo, il pittore ristette rapito davanti all'opera che aveva portato a termine; ma un attimo dopo, mentre ancora la contemplava, tremò e impallidì e inorridito, esclamando: "Questa è proprio la Vita!" bruscamente si volse a guardare l'amata: Ella era morta! ».

Il testo integrale de "Il Ritratto ovale", di Edgar allan Poe.

Il mio viaggio, però, era davvero finito. E i palazzi di Parigi svanivano nella nebbia, per lasciare il posto allo scaffale della biblioteca civica, proprio di fronte a me. Scossa la testa per riprendere coscienza del tutto, mi guardo in giro. Due banchi più in là, rivolta verso di me, c'è una ragazza meravigliosa. Ha i capelli lunghi fino alle spalle, rossi. Alza la testa dal libro e mi guarda, ma forse guarda solo da questa parte. Poi china nuovamente lo sguardo, assorta. Mentre immagino di baciarle il collo delicatamente proprio lì, seduta al tavolo di una biblioteca, capisco in un istante il senso di quel viaggio. Mi sono sempre piaciute le ragazze che leggono. Certo, corro il rischio che mi capiti un'adolescente lesbica che pensa al suicidio, o una misteriosa sconosciuta che mi abborda in un bar e che nasconde preoccupanti bruciature, o una prostituta parigina che non ha mai amato veramente nessuno... Ma alla fine ognuno si sceglie la sua condanna, a questo mondo. E adesso è proprio ora di finire questo libro.

lunedì 3 gennaio 2005

Il ramoscello di lillà

La cronaca di queste feste di fine 2004 offriva spunti per più di una riflessione, e non solo sulla tragedia in Asia in sè, ma sul senso stesso della vita. Se ci limitassimo a recepire passivamente l'orrore per le vittime della catastrofe che ci viene propinato dai telegiornali ogni giorno, non credo che servirebbe a molto. Per fortuna nel mare di articoli che ha inondato la stampa in queste ultime due settimane (certo, anche il nostro lessico risentirà dei fatti di questo periodo, e per molto tempo ancora) c'è stato anche lo spazio per qualche analisi più lucida dei fatti. Qualcuno ha provato a vedere le cose in un'ottica più ampia. Qualcun altro ha fatto appello alla saggezza dei tempi antichi, del resto quale occasione migliore per farlo. Altri ancora hanno cercato di leggere gli eventi da un punto di vista che non fosse soltanto quello dei villaggi vacanze rasi al suolo o della ricostruzione, ma della cultura e dell'anima di popoli che conosciamo troppo poco.
Io i
n questi giorni mi sono ricordato di un episodio accaduto nell'agosto del 1993, credo. Era l'ultima vacanza che facevo con i miei genitori, e per accompagnarli avevo imposto una meta di mio gradimento: Rodi. Essendo l'albergo vicino alla spiaggia ma lontano da qualsiasi centro abitato, però, non avevo grosse possibilità di muovermi, o almeno di starmene per conto mio. Loro erano con un'altra coppia di amici, e di certo non potevano darmi ciò di cui avevo bisogno in quella vacanza (una meravigliosa ragazza coi riccioli castani che avevo visto in spiaggia, anche lei in compagnia dei genitori). Troppo timido per abbordare le mie coetanee, provavo un senso di malessere a far finta di divertirmi, e così l'unica soluzione era chiudermi in me stesso. La serratura fu, provvidenziale, l'Oblomov di Goncarov, che mi era stato assegnato come lettura estiva per la scuola. Leggerlo in spiaggia rappresentava per me l'unica vera boccata d'ossigeno giornaliera, il mio spazio di libertà inattaccabile, la mia oasi incontaminata. Fu facile perdermi in quelle pagine, che raccontavano esattamente ciò che pensavo sarebbe stata la mia vita, pagina dopo pagina. A posteriori posso dire che non sbagliavo poi di molto.

Giunto al capitolo conclusivo mi trovavo sdraiato sul letto della mia stanza, in albergo, quando ad un tratto sentii tremare le pareti abbastanza forte da capire che non si trattava del rumore di un aereo in atterraggio nel vicino aeroporto. Dopo pochi secondi ero in corridoio, ma pareva già tutto finito. Rimasi molto scosso, in fondo era il terremoto più forte di cui avessi coscienza, all'epoca, visto che quello precedente mi aveva colto nel sonno a pochi mesi d'età. In ogni caso, visto che l'albergo non era crollato, ero abbastanza tranquillo per rientrare in camera e finire di leggere il libro. E così ho fatto. Letta l'ultima pagina, lo ricordo benissimo, cominciai a piangere senza riuscire a trattenermi. Forse per la storia triste, per la mia vita o per la paura di poco prima, chissà. Mi rimarrà per sempre una strana sensazione, pensando a Oblomov e al terremoto. Certo, nell'universo non siamo che un minuscolo puntino ma a volte, senza che se ne accorga nessuno, anche dentro di noi arrivano i terremoti, o gli tsunami, a spazzare via tutto quello che abbiamo costruito, lasciando solo una scia di cadaveri e di macerie.

«Andiamo fino al boschetto», disse, dandogli il cestino da portare;
poi aprì l'ombrellino, si rassettò l'abito e si avviò.
«Perché non è allegro?», gli chiese.
«Non lo so, Ol'ga Sergeevna. Perché dovrei essere allegro? E come?».
«Faccia qualcosa, frequenti di più la gente».
«Fare qualcosa! Certo, si può, quando c'è uno scopo. Che scopo ho io? Nessuno».
«Lo scopo è vivere».
«Quando non si sa perché si vive, si vive così, come capita, un giorno dopo l'altro;
ci si rallegra che sia passata una giornata e sia arrivata la notte, e si affoga nel sonno
il tedioso interrogativo: perché si è vissuto oggi, perché si vivrà domani?».
Ella lo ascoltava in silenzio, con un che di cupo nelle sopracciglia aggrottate;
e sulle labbra strisciava, come una serpe, una espressione tra incredula e sprezzante.
«Perché si è vissuto?», ripeté. «Forse c'è qualcuno la cui esistenza è inutile?».
«Forse. La mia, per esempio», disse lui.
«Lei non sa ancora qual è lo scopo della sua vita?», domandò Ol'ga fermandosi.
«Non ci credo. Lei si calunnia: altrimenti non meriterebbe di vivere».
«Ho già superato il punto in cui deve esserci la vita, ed al di là di esso non c'è più nulla».
Sospirò, e lei sorrise.
«Nulla?», ripeté Ol'ga in tono interrogativo, ma vivace, allegro, ridendo, come se
non gli credesse, e prevedesse invece che al di là di esso qualche cosa lo attendesse.
«Lei ride», disse Oblomov, «ma è così!».
Ella continuò a camminare adagio, a capo chino.
«Per che cosa, per chi vivrò?», disse lui seguendola.
«Che cosa dovrei cercare, a che cosa dovrebbero mirare i miei pensieri?
I miei propositi? Il fiore della vita è appassito, rimangono solo le spine».

Camminavano adagio, lei ascoltando in silenzio;
a un certo punto strappò un ramoscello di lillà e lo diede a Oblomov, senza guardarlo.
«Che cos'è?», domandò lui confuso.
«Lo vede: un ramoscello».
«Che ramoscello?», disse lui, guardandola con gli occhi spalancati.
«Di lillà»».
«Lo so... ma che cosa significa?».
«Il fiore della vita e...».
Egli si fermò; e anche lei.
«E...?», disse Oblomov in tono interrogativo.
«Il mio dispetto», disse lei fissandolo con uno sguardo intenso
e un sorriso che diceva: so quello che faccio.
La nube di impenetrabilità che la avvolgeva si dissipò.
Il suo sguardo si fece eloquente e comprensibile.
Era come se avesse aperto di proposito un libro a una pagina a lei
nota e permettesse di leggere un brano segreto.
«Dunque, posso sperare...», disse egli all'improvviso, raggiante di gioia.
«Tutto! Ma...». E tacque. Di colpo Oblomov parve resuscitato e fu lei, ora, che
stentò a riconoscerlo: il viso rannuvolato e sonnolento si era trasformato d'incanto,
gli occhi si erano aperti, le guance colorite, il pensiero si era messo in moto,
nello sguardo brillavano desiderio e volontà.
Ella lesse chiaramente nel muto gioco dei suoi lineamenti,
che a Oblomov era apparso all'improvviso lo scopo della vita.

Sophie Anderson (1823-1903): "Girl with Lilac".

Oblomov lanciava sguardi estatici furtivi al capo, alla figura, ai riccioli di lei,
ora stringeva al cuore il ramoscello.
«È tutto mio! Mio!», si ripeteva pensoso e incredulo.