martedì 22 febbraio 2005

La fioreria sotto casa

Fuori è tutto bianco. Prima sono uscito sul terrazzo di corsa, a piedi nudi e in tuta da ginnastica, perchè sembrava che ci fosse una nebbia fittissima e invece era neve. Quando sono rientrato, con tutta la testa bagnata, per riscaldarmi sono sceso di sotto a prepararmi un bicchiere di Nescafè relax. Mentre lo sorseggiavo, per distrarmi ho preso un libro dallo scaffale, l'ho aperto e alla prima pagina ho letto:

Cavalcare, cavalcare, cavalcare, attraverso il giorno, attraverso la notte, attraverso il giorno.
Cavalcare, cavalcare, cavalcare.


L'animo si è fatto così stanco e la nostalgia così grande. Non si vedono più monti, a malapena un albero. Nulla che osi levarsi. Capanne sconosciute siedono assetate accanto a fonti paludose. Non una torre. E sempre lo stesso scenario. Si hanno due occhi di troppo. Solo la notte si crede talvolta di conoscere la via. Forse di notte ripercorriamo a ritroso quello stesso tratto conquistato con pena sotto un sole straniero? Può essere. Il sole è opprimente, come da noi al colmo dell'estate. Ma in estate partimmo. Gli abiti delle donne splendettero a lungo sul verde. E cavalchiamo ormai da gran tempo. Deve dunque essere autunno. Almeno là dove donne tristi sanno di noi.

(da Il canto d'amore e morte dell'alfiere Christoph Rilke di Rainer Maria Rilke)

Il mio giardino, stanotte.



Pensa un po', Rilke aveva solo 18 anni quando si innamorò di Valerie von David-Rohnfeld. In due anni, prima della rottura definitiva di quel rapporto, le scrisse circa 130 tra lettere e poesie, poi andate perdute. Chissà, magari Valerie è scomparsa portandosi dietro quel malloppo di carta, e i biografi di Rilke hanno perso le tracce di lei e di quel tesoro di lettere d'amore. Ma potrebbe anche averle messe in uno scatolone finito chissà dove durante un trasloco, o averle sacrificate sull'altare dell'amore di un marito troppo geloso...

Invece chissà che fine avranno fatto o faranno le mie, di lettere d'amore. Serviranno a ricostruire il complesso quadro della mia poetica? Qualche sognatrice adolescente le leggerà in un mio epistolario pubblicato postumo, o magari le riceverà dalle mani di qualche ragazzino innamorato che tramite le mie parole cerca di aprirsi una strada verso il suo primo "ti amo"? Più probabilmente verranno abbandonate in qualche armadio o - peggio ancora! - in qualche soffitta a far compagnia ai vecchi quaderni di scuola. In ogni caso il desiderio di perpetrare il nostro ricordo in chi amiamo con la parola scritta è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. Molto meglio i pupazzi, del resto non ne venderebbero così tanti se non fosse così.

L'orsetto severo che ancora veglia su una persona a me cara.



Stasera avrei un po' di cose da sbrigare, dovrei per prima cosa mettere ordine nel caos della mia scrivania, ma il dolce tepore delle due candele al quarzo della stufetta elettrica ha già raggiunto la mia schiena, ed è ormai troppo tardi per reagire. Mi piace l'inverno, perchè al troppo freddo puoi reagire con il troppo caldo. Non potrei mai fare il bagno-sauna che mi piace tanto, se ci fosse un'estate perenne. E non potrei nemmeno ustionarmi la schiena come sto facendo ora. Poi dopo l'operazione agli occhi non ho neanche più gli occhiali appannati quando entro nei locali, cos'altro potrei chiedere ad un freddo inverno come questo. Però, se ci penso bene, uno degli inverni più belli che ricordi è stato quello del 2001...

La mia stufetta elettrica.



Nel gennaio del 2001 ero agli sgoccioli della mia carriera universitaria di studente fuori sede a Trieste. Abitavo insieme al mio caro amico Luca in una mansardina di legno, tanto per sentirmi più a casa. Non andavo alle lezioni, era l'ultimo anno in cui avevo dei corsi da seguire, e non avendo frequentato i primi quattro non mi sembrava proprio il caso di iniziare al quinto. Così mi svegliavo tardi, pranzavo e passavo le giornate a leggere, a bighellonare per le strade e ad ubriacarmi, la sera. La vita scorreva tutto sommato tranquilla, ma avendo molto tempo libero pensai di trovarmi un'occupazione, un lavoretto.
Dando una sbirciatina agli annunci sul giornale, trovai proprio quello che faceva al caso mio: procacciatore di contratti telefonici. Sapeva molto di venditore porta a porta, ma aveva come garanzia l'altisonante marchio di Infostrada, che allora riempiva strade, televisioni e giornali di pubblicità. Pensai di iniziare la mia scalata verso i vertici dell'azienda dal basso, come ogni buon manuale del self made man insegna, e mi presentai al colloquio con la mia valigetta blu (vuota), prezioso dono di un corso Ial per DJ radiofonico che avevo fatto due anni prima. Mi ero fatto fissare il colloquio alle sei del pomeriggio, perchè prima di quell'ora difficilmente avevo un'aria sveglia. Per impegni di studio, dissi. Appena entrato nell'ufficio del direttore, la prima cosa che notai furono le foto dei suoi figli sulla scrivania. Dev'essere un buon padre di famiglia, non potrebbe essere altrimenti. Si occuperà di me come un figlio fin quando spiccherò il volo verso altri lidi senza la minima riconoscenza spinto da un'ambizione senza freni, pensavo. Una stretta di mano, poi una rapida spiegazione del lavoro: dovevo vendere contratti telefonici a privati e ad aziende, e passare ogni mese a consegnarli per riscuotere la provvigione dovuta. Semplice e chiaro. Ogni contratto aziendale valeva per me all'incirca 50.000 lire dell'epoca, niente male. Mentre uscivo con la pila di contratti sottomano, già contavo mentalmente i primi guadagni: nuovo contratto Infostrada per casa mia, per la nonna, per il lontano cugino della mamma, per i vicini di casa...


Messaggi subliminali che i miei genitori mi lasciano sulle scale, ogni tanto.





A casa ne avevo parlato distrattamente, del mio nuovo lavoro. Ma ben presto dovetti incassare il primo vero duro colpo nella mia vita lavorativa da poco iniziata. Una mattina, pochi giorni dopo, vidi tornare a casa mio papà tutto contento.

"Sai Ale, oggi è passato in ufficio un tizio dell'Infostrada,
mi ha fatto vedere tutte le nuove tariffe e mi sembravano vantaggiose,
ha detto che non si paga niente per sottoscrivere il contratto e così l'ho firmato."

"Ah... Mi fai vedere quel contratto un attimo?"

"Si, eccolo qua".

Era esattamente come quelli che avevo io, e il mio primo cliente (e le prime 50.000 lire) mi era sfumato davanti agli occhi con un così feroce, pur se inconsapevole, tradimento in famiglia. Lì per lì non dissi niente, anche per non fare la figura del cretino, e continuai a seguire i miei programmi come se niente fosse. Quando anche mia nonna disse che non le serviva nessun nuovo contratto telefonico (si sa, gli anziani sono sempre restii ai cambiamenti) decisi che non era il caso di fare affari in famiglia: troppe complicazioni, troppi conflitti d'interesse. Molto meglio rivolgermi alle aziende, peraltro più redditizie. Così spesi giorni e giorni a riflettere su quale fosse il mio target potenziale. Sfogliavo le pagine gialle, mentre camminavo per le strade scrutavo ogni targa fuori dai palazzi, sempre alla ricerca del cliente perfetto, quello che non avrebbe mai potuto dirmi di no. E così un'intera rete di appuntamenti da fissare prendeva corpo nella mia mente. Era tutto pronto, bastava solo decidere quando passare all'azione e concretizzare quel lungo lavoro di monitoraggio.

Una significativa immagine tratta dal film Donnie Darko.


Durante la settimana ero un semplice studente fuori sede, perciò ero a Udine solo dal venerdì sera alla domenica e non potevo certo prendere appuntamento con qualche azienda. Dirottai così ben presto le mie attenzioni su Trieste, anche perchè di tempo ne avevo in abbondanza. Ma non conoscendo bene la realtà del luogo, mi muovevo con più circospezione. Forse c'erano anche altre aziende telefoniche che operavano da quelle parti, oppure altri procacciatori di contratti di Infostrada ai quali avrei pestato i piedi nel loro territorio. Già immaginavo minacce, tangenti, estorsioni, violenze psicologiche d'ogni tipo... Decisi allora di tastare il terreno partendo da un bersaglio il più possibile innocuo. La scelta, dopo lunghi pomeriggi di riflessione, cadde su un obiettivo apparentemente banale, il classico caso in cui dici "ma come ho fatto a non pensarci prima?". Era la fioraia sotto casa.

La Regina delle nevi disegnata da Lev Atamanov per l'omonimo cartone animato, nel 1957.



Faceva molto freddo quell'anno e uscivo malvolentieri senza aver bevuto qualche bicchiere di vino, dopo un buon pasto preparato da Luca a base di salame con l'aceto e frico con patate e cipolla. Ma dovevo affrettare i tempi, erano passate due settimane e non avevo stipulato ancora nessun contratto, mentre l'obiettivo che mi ero prefissato era di almeno 10 contratti nel primo mese. Così uscivo di casa tutto imbacuccato col cappotto lungo nero e la sciarpa che mi copriva quasi interamente il volto, e ogni volta guardavo di sfuggita dentro la fioreria per studiare un piano d'azione. Non potevo fermarmi troppo davanti alla vetrina per non dare nell'occhio, altrimenti la fioraia mi avrebbe riconosciuto quando le avrei proposto un contratto. Così mi appostavo dietro a un lampione, fingendo di aspettare un autobus, oppure lanciavo un'occhiata furtiva all'interno, passandoci davanti con aria distratta. Lei era probabilmente una zitella acida e rancorosa, pronta a sbattermi fuori dal negozio con qualche frase incomprensibile al solo sentir pronunciare la parola 'contratto'. C'era poi un'altra considerazione da fare: dovendo entrare durante l'orario di apertura del negozio, rischiavo di trovare qualche cliente, col conseguente problema di risultare di impaccio per il suo lavoro. Quindi dovevo entrare solo qualora il negozio fosse stato vuoto, meglio se in orari di bassa affluenza, perchè non si sa mai che arrivi qualcuno a mandarmi all'aria tutti i piani, mentre le sto illustrando i vantaggi delle tariffe Infostrada. L'idea definitiva era di andarci appena apriva dopo pranzo, verso le tre. Prendevo i contratti, scendevo le scale, davo una rapida occhiata per vedere se c'era qualcuno e poi entravo: "Buongiorno signora, ha mai sentito parlare delle offerte Infostrada?", "Buondì, sono Alessio Giacomini di Infostrada, vorrei illustrarle...". Ma forse sarebbe stato meglio telefonare prima per un appuntamento, era più professionale. Avendola proprio sotto casa però mi sembrava ridicolo telefonarle. E se poi un giorno mi vedeva uscire dalla porta del palazzo proprio sopra la sua fioreria, che figura ci facevo? Al massimo potevo entrare direttamente nel negozio e, se era indaffarata, potevo chiederle se preferiva che tornassi lì in un altro momento, quando le andava meglio. Si, era deciso, avrei fatto così.

Io e la regina delle nevi.




I giorni passarono, freddi e brevi. Dopo pranzo, al momento del caffè, c'era sempre una piccola pausa nei miei pensieri dedicata ai contratti Infostrada e alla fioreria sotto casa. Mi domandavo: oggi è il giorno giusto? Ma poi o dovevo andare al bagno, o ero raffreddato, o avevo mal di testa perchè la sera prima avevo bevuto troppo, sembrava proprio che il momento giusto non arrivasse mai. Passarono così 25 giorni, da quando mi avevano consegnato i contratti. Ed erano ancora tutti lì, intonsi, sul comodino di fianco al letto. Le tariffe le conoscevo, anche se rimanevano dei punti oscuri riguardanti l'opzione Canonezero. Alla fatidica domanda "ma da quando potrò smettere di pagare il canone alla Telecom?", non avrei potuto opporre che una pallida argomentazione: "Dipende dai tempi tecnici che occorreranno all'azienda per creare le infrastrutture necessarie". Ma in fondo avrei anche potuto inventarmi una balla in grande stile, tanto poi chi mi vede più: "Da giugno. Ancora qualche mese e finalmente quei ladri non vedranno più il becco d'un quattrino da lei, cara signora". Ormai però avevo tirato troppo la corda, e temevo da un momento all'altro la telefonata in cui mi avrebbero chiesto che fine avessi fatto e quanti contratti firmati avrei portato. Appena ricevevo una chiamata al cellulare da numeri sconosciuti, cominciavo a preoccuparmi. Non rispondevo, e poi controllavo sull'elenco online di chi fosse quel numero. Ma pareva proprio che si fossero dimenticati di me, o forse semplicemente mi aspettavano con impazienza nei loro uffici, pronti a redarguirmi per il ritardo.

Un'immagine tratta dal film Nerds.



In quel periodo, poi, conobbi Giulia. Ci sentivamo quasi ogni giorno per telefono, e piano piano cominciò a riempire le mie stanche giornate. Ripulì ben presto la mia vita dalla polvere che in tanti mesi di solitudine vi si era accumulata dentro, e l'odore stantio della noia intorno a me scomparve in un baleno. Ormai febbraio volgeva a marzo e le giornate più calde erano un'avvisaglia della primavera che col suo pallido sole di lì a poco avrebbe inondato i prati di bellissimi fiori. Non i fiori recisi della fioreria sotto casa, ma i fiori di prato liberi e selvaggi. Sentivo già l'odore dell'erba, vedevo una coperta appoggiata per terra e due persone che si baciavano, in mezzo alle margherite appena spuntate. Non un negozio chiuso, buio, pieno di fiori dalle fogge particolari ma straniere ai miei occhi, come i territori inesplorati e irti di pericoli da cui provenivano. E così piano piano mi dimenticai di quei contratti, che finirono prima sul tavolo sepolti da altre mille cianfrusaglie, poi nel mio zaino, poi nello scaffale di camera mia a Udine, finchè ne persi completamente le tracce. Oggi pomeriggio, mentre cercavo alcuni documenti, frugando tra le carte li ho rivisti per la prima volta da allora. A distanza di anni erano ancora tutti lì, intatti. Nessuno mi ha mai chiamato da Infostrada per sapere che fine avessero fatto. Ogni tanto, invece, mi chiedo che fine abbia fatto Giulia. Forse dovrei telefonarle...

I contratti infostrada ancora intonsi, nel gennaio 2005.

mercoledì 16 febbraio 2005

L’infausto presagio

Oggi, mentre scrivevo una lettera di protesta a Trenitalia nella speranza di capire che senso abbia scrivere sul loro sito che la prenotazione online di un treno si può cambiare “fino a un’ora dopo la partenza del treno” se poi invece alla biglietteria mi dicono che si può cambiare “fino a mezzora prima”, ripensavo all’unica lettera di protesta di cui mi ricorderò sempre, per diversi motivi.

Come sicuramente tutti saprete il padre di Pingu, nell’omonimo cartone animato fatto con i pupazzi di plastilina, è un postino. Si vede che sarà sempre estate, al polo sud, perchè invece di andare a scuola o all’asilo il piccolo pinguino Pingu lo segue spesso anche durante le ore di lavoro. Si acquatta sul retro della motoslitta, ruba al papà il cappello da postino per sentirsi come i grandi, e spesso consegna lui direttamente i pacchi agli altri pinguini, anche se magari a volte sbaglia igloo o combina qualche disastro. Faccio questa doverosa premessa per dire che il mio rapporto con le poste ha qualcosa di atavico, o forse semplicemente di morboso. Sarà per questo o semplicemente perchè mi piacciono le cose fuori moda e un po’ da sfigati, fatto sta che amo spedire lettere, foto, biglietti, cd e mille altre cose in eleganti buste imbottite gialle. A qualcuno piace mandare mms con la propria foto mentre cammina per strada o mentre sta seduto sulla tazza del water, e a me piace mandare pacchetti.




Ma torniamo al dunque. Era il 10 dicembre del 2003 ed avevo appena messo giù la cornetta dopo una telefonata durante la quale ero venuto a conoscenza di un fatto sconcertante, che mi aveva inquietato non poco. La persona con cui avevo appena parlato aveva ricevuto un mio pacchettino preparato col cuore praticamente fatto a pezzi. Non c’era semplicemente qualcosa di rotto all’interno, quello può succedere... No, era stato un vero e proprio atto di terrorismo, del quale non so ancora nè l’autore nè tantomeno il movente. Il pacchetto era stato tagliuzzato all’esterno con un oggetto affilato, probabilmente delle forbici, e all’interno c’era una videocassetta spezzata in più parti (non è mica facile spezzare una videocassetta!) e due cd ridotti in tanti piccoli pezzettini, come del resto la lettera, che a stento si riusciva a leggere dopo un’attenta opera di ricomposizione.




Scrissi immediatamente una lettera di protesta che recapitai dopo pochi giorni al mio ufficio postale di fiducia, al quale avevo chiesto anche un parere in merito. Mi dissero che difficilmente avrei ottenuto qualcosa, ma in fondo era una questione di principio.

Dubito che la mia lettera di protesta abbia dato vita in Poste Italiane a una caccia all’uomo o almeno a un’indagine conoscitiva per individuare il barbaro malfattore che in preda a chissà quale raptus era stato capace di tanto. Dubito ancor di più che si sia trattato di un incidente, vista la minuziosa opera di distruzione alla quale l’ignaro pacchetto era stato sottoposto. Dubito infine che si sia trattato di un atto di gelosia di una persona vicina alla vittima (anche perchè poi la vera vittima ero io!). Non potendo arrivare a nessuna conclusione certa di questa vicenda, restava in me la spiacevole sensazione di essere di fronte non a un evento casuale, ma a una perversa macchinazione ai miei danni o, ancora peggio, a un infausto segno del destino. Dopo un così preoccupante avvertimento non avrei più potuto spedire pacchetti a quell’indirizzo così a cuor leggero. E le mie peggiori previsioni, di lì a poco, puntualmente si avverarono.



Riporto quella lettera anche qui, semplicemente perchè certe cose non vanno dimenticate.

Udine, 10/12/2003

Vorrei presentare un reclamo riguardo al danneggiamento di un pacchetto, spedito tramite posta prioritaria, il giorno 9 dicembre 2003, alle ore 12. Il pacchetto, consegnato direttamente allo sportello dell’agenzia Udine 4, nella quale mi reco solitamente, è arrivato al destinatario (a XXXXXX, in via dei XXXXXX, cap XXXXXX) la mattina dopo, 10 dicembre 2003, gravemente danneggiato.
Il pacchetto è stato recapitato direttamente alla portineria del palazzo in cui abita il destinatario (ciò mi porta a escludere il caso di un danneggiamento fortuito successivo alla consegna da parte di estranei) praticamente semiaperto, con all’interno due compact disc fatti a pezzi, una videocassetta spezzata, mentre alcuni fogli e la lettera allegata sembravano tagliati con forbici o oggetti metallici, non semplicemente strappati. Il pacco era, naturalmente, imbottito. Spedisco solitamente compact disc e altri oggetti e mai sono stato testimone di una cosa del genere, soprattutto da quando uso la posta prioritaria. Mi aspettavo che, proprio grazie all'utilizzo di un servizio migliore e più costoso rispetto alla posta ordinaria, fosse dedicata da parte Vostra una maggiore attenzione nel consegnare i pacchetti non solo più velocemente, ma almeno interi.


Non avendo con me la ricevuta del pagamento (che per la posta prioritaria non viene consegnata), il personale dell’agenzia Udine 4 mi ha sconsigliato di presentare una lettera di reclamo, ma credo sia comunque mio dovere segnalare un tale episodio increscioso e, oserei dire, barbaro, per evitare se non altro che succeda di nuovo. Spero che, facendo le dovute segnalazioni, siate in grado di offrire un servizio all’altezza del restyling dell’immagine delle poste che avete realizzato ultimamente, in quanto la percezione di un buon servizio non si ottiene soltanto con un’immagine più accattivante, ma soprattutto grazie all’efficienza e alla serietà della proposta. Il danno economico a mie spese è relativamente contenuto (1,86 euro di spedizione, una decina di euro in tutto per il contenuto distrutto) ma il danno morale per il destinatario nel vedersi recapitato un pacchetto in frantumi è quello che sinceramente avrei voluto evitare.
Essendo un assiduo utilizzatore dei prodotti postali, nonchè possessore di un libretto di risparmio presso l’agenzia Udine 4, spero sinceramente di non dovermi pentire altre volte di aver affidato i miei beni economici e affettivi ai mezzi da Voi offerti.

Cordialmente

Pingu

lunedì 14 febbraio 2005

La cura

Fu proprio nella notte di San Valentino, qualche anno fa, che mi accorsi di quanto fosse difficile fare l'amore con una ragazza. Se potevo dire con certezza che quella tecnicamente era stata la mia prima volta, ancora non sapevo cosa fosse più importante, tra quella ragazza e la perdita della verginità.
Di lei sapevo che era più grande di me e che aveva un rossetto rosso acceso e dei capelli neri neri, lunghi. Di me lei sapeva che era stata la mia prima volta, e che mi piacevano gli Suede. Quella sera le regalai un braccialetto che avevo preso in un piccolo negozio di cose indiane. Era color argento con alcuni elefantini colorati attaccati, mi era piaciuto subito e l'avevo scelto come regalo di San Valentino. Ci eravamo conosciuti appena la settimana prima. Riuscimmo a vederci anche la settimana dopo, e stavolta fare l'amore fu un po' meno complicato. Ma dopo due settimane in cui potevo credere che fosse nata una storia tra di noi, arrivò un evento imprevisto a metterci alla prova: la malattia.



Quel pomeriggio c'era un bellissimo sole. Per essere alla fine marzo non faceva neppure tanto freddo, anzi, ero uscito a piedi e solo con la giacca della tuta. Avevo i brividi lo stesso, ma probabilmente ero solo un po' debole. Non uscivo di casa da circa un mese e mezzo, a parte le due volte in cui i miei mi avevano portato in ospedale. Era iniziato tutto con una febbre come tante altre, magari un po' più alta del solito. Qualche aspirina, forse anche degli antibiotici, visto che non passava, e poi un giorno mi ero svegliato con un prurito strano e delle ghiandole ingrossate dietro il collo. Spesso nel giudicare le malattie ci lasciamo condizionare dall'esteriorità, uno può avere un male incurabile che lo divora dall'interno e magari se ne accorge solo all'ultimo, mentre basta che ci sia qualcosa di insolito nell'aspetto fisico e ci sembra di dover morire da un momento all'altro. Quando mi vidi allo specchio con due bozzi dietro la schiena e ricoperto di puntini rossi, pensai che vent'anni erano troppo pochi...
Meno male che ci si mise l'anziana dottoressa, a tranquillizzarmi. Prima sospettò il morbillo, ma l'avevo già avuto. Poi la varicella, ma le macchie non erano proprio quelle. Infine la mononucleosi, e a quel punto, soddisfatta, diagnosticò. Quando poi dalle analisi venne fuori che non era neanche quella, ma che i valori del sangue erano sballati, si mise le mani nei capelli. Ricorderò sempre la scena di quella povera signora, a un passo dalla pensione, che non sapeva più che pesci pigliare. Dopo due settimane di febbre e puntini rossi, poi, cominciavo anche a sentirmi debilitato, perchè praticamente non riuscivo a mangiare nulla. Una sera superai i 40 di febbre, e i miei genitori mi portarono all'ospedale. Al pronto soccorso mi fecero un'iniezione di paracetamolo e mi accompagnarono a fare delle radiografie al torace, in carrozzella. Era la prima volta che salivo su una carrozzella da quando ero bambino, ma proprio non riuscivo a reggermi in piedi. Mia mamma solo anni dopo mi disse che quella sera fu l'unica volta in cui pensò che potessi davvero morire.



Dopo una settimana la febbre calò, ma rimaneva pur sempre stabile sui 37-38. E i puntini erano sempre lì, sul petto e sulle gambe, in parte anche sul viso. Continuavo a non mangiare, ed ero arrivato a pesare 62 chili, circa 10 in meno di tre settimane prima. Pensavo spesso che di lì a poco sarei morto, ma ero lo stesso curioso di sapere perchè, e nessuno sapeva dirmi che cosa avessi. Cominciai a leggere un'enciclopedia medica che avevo in casa, per cercare tutte le malattie che avessero come sintomo quei puntini rossi. Scartate quelle più improbabili, mi ero convinto di averne una a scelta, tra cancro e aids. Il primo caso lo scartai dopo alcuni giorni di accurati controlli delle feci. Il secondo era forse quello che mi convinceva di più, ma possibile che dopo una sola settimana dal mio primo rapporto sessuale avessi già contratto il virus? L'enciclopedia e il buonsenso lo escludevano, eppure...



Eppure qualche virus doveva essere, dopotutto. Ma di queste cose non potevo parlare con quella che a tutti gli effetti consideravo ancora la mia ragazza, anche se la conoscevo solo da un mese e non la vedevo da quasi tre settimane, ormai. Ci sentivamo spesso per telefono, ma non avevamo molti argomenti di cui parlare. Non sapevamo quasi nulla l'uno dell'altro, non potevamo vederci e io non avevo così tante cose interessanti da poterle dire, dal momento che passavo le mie giornate sdraiato sul letto o a leggere l'enciclopedia medica. Le conversazioni si fecero poco a poco più fredde, e sentivo che la stavo perdendo. L'idea, pur essendo convinto di morire di lì a poco, mi terrorizzava. Valeva davvero la pena di vivere, senza poter avere una ragazza che mi aveva amato piegata in lacrime sulla mia tomba? Ma era ancora troppo presto, e sentivo che il mio ricordo non sarebbe vissuto per sempre in lei come una fiammella sempre accesa nel suo cuore. Vedevo quella fiammella diventare sempre più flebile e poi spegnersi, ma io volevo vivere abbastanza per poterla alimentare ancora, per farla diventare davvero eterna.
Ma le telefonate diventavano sempre più fredde, lontane, distaccate. La chiamavo sempre più di rado, per non soffrirne. Dopo un mese cominciai a presentarmi tutte le mattine alla clinica universitaria, dove mi facevano tutte le analisi del sangue possibili e immaginabili. Nel primo colloquio, il medico che seguiva il mio caso mi chiese se mi drogavo e se avevo avuto rapporti non protetti. Mentii rispondendo di no ad entrambe le domande. Tanto c'è il segreto professionale, pensavo dandomi del cretino tra me e me. Ma allora ero sicurissimo che le cause non erano quelle.



Forse il destino metteva alla prova la forza del mio amore per lei, forse era una malattia psicosomatica, o forse era davvero quella quinta malattia di cui qualcuno parlava, non sapendo più cosa dire. La quinta malattia è quella che si tira fuori quando si sono esaurite le possibilità, ma magari ne esiste anche una sesta, una settima, un'ottava. L'unica cosa certa è che quelle mattine al day hospital mi stavano facendo bene, e ormai avevo solo qualche linea di febbre, i linfonodi gonfi e dei pallini rossi sul petto e sulle gambe. Sulla faccia erano quasi scomparsi, e così mi decisi a chiamare quella che consideravo ancora la mia ragazza. O la ragazza della mia prima volta. Ma forse, ora che ci penso, fu lei a dirmi se potevamo vederci, perchè doveva parlarmi. Lo disse con una voce seria: "si, vengo io da te se non puoi guidare, troviamoci al parco vicino a casa tua". Forse era seria perchè era preoccupata per me...



Quel pomeriggio di fine marzo, mentre camminavo lungo il viale che conduce al parco, avevo un po' paura. Ma non sapevo (o non volevo sapere) di cosa, ed ero contento di poterla rivedere dopo un mese di lontananza. Già, perchè era pur sempre la mia ragazza, anche se dopo esserci visti per due weekend, per quasi un mese non ci eravamo più potuti incontrare. Mentre costeggiavo la roggia con le papere un bel sole primaverile mi accecava, e mi sentivo stranamente bene, pur essendo debolissimo. Ogni passo era come sollevare un macigno, ma era necessario. Probabilmente avevo anche una gran brutta cera, dopo un periodo del genere, ma dovevo renderla parte della mia vita, non potevo continuare a nascondermi da lei come un appestato. Quando la vidi arrivare in lontananza mi dimenticai di ogni discorso che avevo pensato di farle. L'unica cosa che parlava, di me, era lo sguardo. Sperai che capisse tutto da quello. All'inizio era rigida, un po' trattenuta, e io cercavo di non insistere. Mi chiese come stavo, e le raccontai tutto, tralasciando l'aids e l'enciclopedia medica. Ma ancora non capivo se la sua era freddezza o preoccupazione. Le donne per me allora erano un mistero ancor più di adesso, se possibile. Riuscii anche a farla ridere, e le dissi un po' di cose carine. Era vestita con un pastrano etnico un po' strano, ma aveva un viso angelico e triste, ed era più o meno ciò che avevo sempre sognato. E dico più o meno solo perchè i sogni sono sempre un po' confusi, ovattati. Lei piano piano si sciolse, e mentre eravamo seduti su una panchina rossa in quel parco vicino a casa mia le accarezzai i capelli.
Poi cominciò a calare il sole, e si fece più freddo. Essendo anche vestito leggero, in quelle condizioni rischiavo di ammalarmi di nuovo, e così la accompagnai a prendere l'autobus per tornare in stazione. Abitava a qualche chilometro da Udine. Io invece abitavo a qualche centinaio di metri di distanza, ma presi lo stesso un autobus, nella direzione opposta alla sua. Mentre mi sedevo, sentivo salirmi di nuovo la febbre, o forse era la stanchezza perchè non ero più abituato a uscire di casa. Dovevo sembrare proprio uno straccio, quando vidi arrivare il controllore che mi chiese se avevo il biglietto. Pensai che le sfighe vengono sempre tutte insieme, e gli parlai come se stessi per esalare l'ultimo respiro da un momento all'altro: "Mi scusi, ma credo di avere la febbre alta e voglio solo tornare a casa, abito a due fermate da qui.". Lui mi guardò, si rese conto che non stavo mentendo, e mi lasciò scendere.



Nelle settimane seguenti piano piano ripresi le forze, e i puntini sparirono anche dal torace e dalle gambe. Ricominciai a uscire con lei, e capii che fare l'amore poteva essere anche molto bello, ora che sapevo di non essere solo una persona di passaggio nella sua vita. Anni dopo lei mi confessò che quel giorno al parco era venuta per dirmi che non era più il caso di vederci. Non so esattamente cosa fu a farle cambiare idea, non so neppure se ci sarà al mio funerale e se quella fiammella davvero non si spegnerà mai, ma da quel giorno non posso fare a meno di associare amore e guarigione, solitudine e malattia. E devo dire che la morte, mentre eravamo seduti su quella panchina rossa e lei poggiava la testa sulla mia spalla, faceva un po' meno paura.

E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale,
ed io, avrò cura di te.

domenica 6 febbraio 2005

Pensieri di viaggio

A volte mi chiedo come si possa raccontare un viaggio. Ci sono tanti modi, per farlo. Posso raccontarlo come fosse un romanzo, scegliendo di volta in volta i particolari che mi fanno più bello, omettendone altri. Posso mostrare delle diapositive, di quel viaggio. Brevi momenti catturati dal mio occhio e fermati da una macchina, più o meno fedelmente. Ma in nessuno dei due casi, nè con le parole e neppure con le immagini, posso restituire alla memoria quei frammenti di realtà, il più delle volte inutili, che di solito prendono il nome di pensieri. I miei pensieri, mentre viaggio. Ma non c'è nulla di più volatile, mentre ci si muove da un posto all'altro. Non riesco neanche a immaginare tutte le cose che ho pensato spostandomi da un luogo a un'altro, nella mia vita. Ricordo gli argomenti, forse, ma sono come un oceano in cui sto cercando una piccola barchetta bianca. I pensieri, quelli no, non posso certo ritrovarli. Cosa pensavo sul treno Padova - Udine nel febbraio del 1995? E sul Venezia - Palermo nel dicembre 2001? E in macchina, dalle parti di Cesena, nel luglio del 2003?

Solo qualche misero frammento mi è rimasto, di tutti quei pensieri. La tristezza per la morte di Mick Ronson, storico chitarrista di David Bowie, mentre ero in treno verso Padova (Mick era morto nel 1993, ma ero libero di pensarci anche dopo, in fondo). E quant'era bella Shine on degli House of love sul treno per Palermo, mentre vegliavo su Giulia in quella cuccetta. Infine quanta paura di arrivare in ritardo, come Jim in quel caffè, mentre i Belle & Sebastian mi tenevano compagnia in un afoso luglio di pochi anni fa.
Ma non basta, non può bastare a ridarmi quelle cose stupide, inutili e infantili che penso quando viaggio. Non può mostrarmi l'intera gamma di colori dei particolari che solo in quei momenti mi verrebbero in mente. Basta, dovrò portarmi dietro un blocchetto e fermarmi a scrivere di continuo, per non farmeli sfuggire. Oppure potrei fare tantissime foto a cose apparentemente senza nessuna importanza, ma che possono riportarmi a ciò che sfugge e non ritorna mai più in quella forma, come le nuvole.

Per esempio: quale può essere il significato, nella toilette di un treno, della scritta "abbassare il coperchio del wc prima di azionare lo scarico"? Neanche a casa mia lo faccio, figuriamoci in un lurido cesso di un interregionale. Credo che neppure a un milord inglese verrebbe in mente di abbassare il coperchio di un wc sporco e schifoso come quello, se non altro per non prendere delle malattie. No, ci dev'essere un altro motivo oltre al bon ton dei dirigenti di Trenitalia. Forse dicono di farlo per evitare gli schizzi d'acqua dello sciacquone, ma a ben vedere lo sciacquone non c'è. Vedo solo un pedale che apre una botola, e poi tutto finisce in mezzo alle rotaie. Poi, ad un tratto, l'illuminazione. Certo, se uno non abbassa il coperchio, quando apri la botola ti può cadere qualcosa nel buco, che ne so, un cellulare, l'anello di fidanzamento, gli occhiali, il portafogli. Vallo a recuperare, dopo, cercandolo lungo il tratto Milano - Rho...

Quando si viaggia in posti sconosciuti, le scritte sui muri sono una fonte inesauribile di dubbi per chi come me spesso non comprende la realtà delle persone che lo circondano. E così, passeggiando tra le vie per itinerari ogni volta diversi, scopro delle cose che mi lasciano a bocca aperta. Non le meraviglie dell'arte e dei palazzi, ma i misteri dell'uomo. Come i geroglifici nella piramide di Cheope, forse anche queste scritte avranno un giorno lontano il loro Champollion. Io, nella mia umana limitatezza, non posso pormi che come osservatore, chiedendomi con lo stupore dipinto sul volto che senso abbia tutto ciò...

Ma girare in tondo per le strade mi porta anche a piacevoli scoperte. Forse più che tra gli uomini mi trovo a mio agio in mezzo agli elementi della natura. Ed è così che entrando nel "Regno dei fiori", ideato da Nicola De Maria in Piazza Carlo Emanuele II a Torino, dimentico l'ostilità del mondo, il mio ritardo e la fame che mi rende debole e bisognoso. Guardando quell'intreccio di fili luminosi ridivento bambino e mi ricordo tutti i soffioni che avevo in giardino, a primavera. Mi vedo in pantaloncini corti mentre li prendo a calci per vedere cosa succede. Certo, prenderli a calci è meno poetico del soffiarci dolcemente sopra, ma allora non avevo tutti i riguardi che ho adesso. Non troppo tempo fa presi in prestito le parole degli Einsturzende Neubauten per una ragazza, e le dissi:

For you I'll be a dandelion
A thousand flowerettes in the sky
Or just a drop in the ocean

Lei non mi smentì, ma poi diede ragione soprattutto alla seconda affermazione, temo. Pensando a queste cose, in quella piazza piena di luci colorate, ho tirato un calcio a uno dei lampioni decorati da Nicola De Maria ma non ho visto nessun semino, nessun paracadute volare sull'erba. Ho tirato un secondo calcio, e ancora niente. Mentre andavo a mangiare qualcosa, ho pensato: da queste cose ci si accorge che col trascorrere del tempo muore ogni giorno anche una piccola parte di noi. Ho fatto una foto a quel lampione - soffione per ricordarmelo, la prossima volta che penserò a cos'ho pensato, quel giorno, in viaggio.

Uno dei lampioni decorati da Nicola De Maria in Piazza Carlo Emanuele II a Torino.