sabato 25 dicembre 2004

La Casa

Strano natale, quello di oggi. In un modo o nell'altro mi ha fatto pensare ai natali di quando ero piccolo. Allora mi svegliavo presto, dopo aver dormito pochissimo per l'emozione nell'attesa del rito dell'apertura dei regali, sul letto dei miei genitori. Oggi mi sono svegliato a mezzogiorno, dopo sei ore scarse di sonno, e senza nessuna fretta di scartare nulla. Solo un leggero mal di testa e il senso di fastidio di un brutto sogno interrotto poco prima di aprire gli occhi: mio fratello che cercava di convincere i miei genitori a scambiare la tv in salotto con un misero 14 pollici che per giunta non funzionava. Io la tv in salotto non la guardo mai, ma insomma, quei poveretti erano lì tutti accondiscendenti e lui si portava a Monaco la tv grande per lasciarli seduti sul divano a guardare uno schermo pieno di interferenze? Chissà, forse era senso di inadeguatezza, gelosia o semplicemente il fatto che quando mio fratello è a casa il suo passatempo preferito è rompermi le scatole? E infatti, mentre verso la mezza sorseggiavo il mio bel caffelatte, si avvicina e comincia a criticare i regali che ho fatto. Uno in particolare attira il suo sdegno: "ma come, - mi fa - regalare a una bambina un kit per le pulizie?". Al che rispondo, seccato: "Beh, tua sorella le regala il kit della brava cassiera e io non posso regalarle quello della brava casalinga?". E lui insiste: "Ma dove l'hai trovato, in un cassone dell'immondizia?". "Tra un po', se non la smetti, ci finisci tu in un cassone dell'immondizia".
La mattina è forse l'unico momento in cui sono particolarmente irascibile, soprattutto se ho dormito meno di una decina di ore, e la discussione è finita lì. Giusto il tempo di raccontare il mio sogno per sentire la loro interpretazione, ed è ora di pranzo. Ma per i miei nipoti è solo una lunga agonia in attesa dell'apertura dei regali di nonni e zii, in taverna, con il dolce e lo spumante.

La mia nipotina Francesca con uno dei suoi regali di natale,
il kit Linda la Casa "linga" (ovvero "il carrello delle pulizie").

Quando indico a mia nipote Francesca il sacchetto col kit delle pulizie, mi sento addosso lo sguardo beffardo di mio fratello, ma è l'espressione di gioia di lei a darmi la soddisfazione più grande. Mostrandomi più solerte del solito, la aiuto a montare il carrello con i suoi innumerevoli accessori. Mica capirà da così poco che è mio e non di Babbo Natale, penso.
C'è proprio tutto: il simil-mocio Vileda, la scopa, la spazzola, il raccoglitore per le cartacce, il detersivo per i pavimenti al limone, la saponetta, il secchio per l'acqua. Quando tutto è pronto, le manca solo il grembiule, o il camice con la cuffietta. Ma è natale, e per oggi può ancora tenere la sua camicetta bianca col collo ricamato. Però non se ne può più di riempire i bambini di facili sogni. Dare direttamente il kit da fatina, da principessa, o ancora peggio da ragazzina trendy è quanto di più diseducativo si possa fare. Quante vite rovinate, perchè fin da piccoli noi gli facciamo credere che sia tutto così semplice.
Non è detto che le cassiere e le casalinghe (o le donne delle pulizie) siano cattivi modelli, anzi. Più tardi guardando Francesca che raccoglieva da terra le carte dei regali, spolverava i suppellettili o gridava da quel piccolo microfono (funzionante): "siete desiderati tutti alla cassa!", pensavo che certo, a chiunque piacerebbe essere ricco, bello e felice. Solo che a volte per diventarlo non occorre essere dei principi o delle principesse. Non occorre neanche essere delle fate (anche se conoscerle non guasterebbe). L'unica cosa fondamentale è essere se stessi e crederci. Era questo che mio fratello stamattina non aveva capito, scambiando il mio regalo per una resa dei sogni, quando invece era tutto il contrario.

Verso sera, mentre mi rilassavo leggendo Bernanos con in sottofondo il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi, la mia attenzione è stata catturata dal coro a 10 voci del "Nisi Dominus". Certo, la mia media del 5 in latino al liceo non era sufficiente per comprenderne appieno il significato, ma il sempre utile ipertesto della Bibbia che conservo gelosamente nell'hard disk del computer è venuto in mio soccorso.

Salmi - Capitolo 127

L'abbandono alla Provvidenza

[1] Canto delle ascensioni. Di Salomone.

Se il Signore non costruisce la casa,
invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città,
invano veglia il custode.
[2] Invano vi alzate di buon mattino,
tardi andate a riposare
e mangiate pane di sudore:
il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno.
[3] Ecco, dono del Signore sono i figli,
è sua grazia il frutto del grembo.
[4] Come frecce in mano a un eroe
sono i figli della giovinezza.
[5] Beato l'uomo che ne ha piena la faretra:
non resterà confuso quando verrà a trattare
alla porta con i propri nemici.

Già, i bambini... A volte sembrano un mistero incomprensibile, pur essendo stati noi stessi come loro, un tempo. Ma non possono essere solo le Bratz o i Bey Blade ad averci fatto dimenticare cosa vuol dire essere bambini. Basterebbe recuperare qualcosa del nostro passato e ci renderemmo subito conto che ci vuole così poco per stimolare la fantasia...
Quando mi regalarono il lussuoso castello giallo dei lego, non riuscii mai a montarlo esattamente com'era nella foto sulla scatola. Un altro natale, invece, mi regalarono un anonimo parcheggio a 3 piani con annesso l'autolavaggio delle macchinine. C'erano anche le transenne e il baracchino per pagare il pedaggio. E' inutile che dica con quale ho giocato di più...

martedì 21 dicembre 2004

La sindrome di Peter Parker

E' da un po' di tempo, precisamente da quando riesco a vedermi di nuovo nitidamente allo specchio dopo l'operazione agli occhi, che mi chiedo chi sono diventato. Certo, si vede che sono sempre io, ma senza quella montatura nera è come se avessi perso parte della mia identità. Insomma, è da una vita che mi vedo con gli occhiali...

Qualche giorno fa, quasi spinto da un presentimento, ho deciso di passare la serata facendo la maratona spiderman, ovvero spiderman 1 e 2 uno dopo l'altro, un'impresa. D'altra parte il primo lo dovevo vedere per capire meglio il secondo. Il secondo lo dovevo vedere perchè tutti dicevano che è nettamente migliore del primo (verissimo). Alla fine, mentre guardavo l'ultima scena trattenendo a stento le lacrime, ero commosso non solo dall'happy end della storia, ma anche dalla rivelazione che quei due film mi avevano fatto: io sono Peter Parker.

Ora, con questo non voglio dire che mi arrampico sui muri e ho una seconda identità in cui mi vesto con una calzamaglia aderente con le ragnatele, perchè questo nel film è solo un dettaglio. In fin dei conti anche Peter Parker non è un supereroe, almeno così l'ho vista io, ma è solo un ragazzo un po' sfigato in preda a un'allucinazione che deforma a suo piacimento la realtà non solo nei sogni, ma nella vita di tutti i giorni. Lui immagina di essere un supereroe, vede nella sua scialba vicina di casa una ragazza bellissima (in quale mondo reale Kirsten Dunst avrebbe bisogno di lavorare in un fast food per vivere?), e i suoi nemici non sono altro che una rappresentazione mostruosa delle sue paure (nel primo episodio l'indigenza, la povertà, nel secondo la mancanza di competitività, di ambizione?). Dopo aver creato questo mondo immaginario in cui lui è l'eroe senza macchia e i suoi nemici sono dei mostri orribili da distruggere e con cui è impossibile il compromesso, il dialogo, dopo aver dato forma con la fantasia all'oggetto del suo desiderio (l'amore della sua vita, mai ricambiato), prima o poi tutto ciò doveva per forza cadere come un castello di carte. Del resto non serviva ad altro che a dargli delle giustificazioni: non combino nulla nella vita perchè devo combattere un nemico inesistente (la classica sindrome del "tutti ce l'hanno con me"), e soprattutto sono sfigato con le ragazze e quindi mi creo un alibi per non provarci neanche (la paura di mettersi in gioco, l'ansia della competizione).

Da questa consapevolezza nasce un profondo ripensamento interiore, e Peter scopre di non poter continuare con quel giochino per sempre, perchè di nemici te ne puoi creare di nuovi ogni giorno, e l'oggetto del desiderio, in quanto irraggiungibile anche se a portata di mano, può essere cercato in eterno. Ma così non ottieni mai niente, se non rimandare per sempre ogni decisione, ogni scelta. Quando il suo mondo fantastico crolla tutto a un tratto miseramente, fa quasi pena. Più che cattivo o egoista, lui aveva solo paura di affrontare la realtà, chi non ce l'ha in fondo. Il lavoro, le ragazze, tutto questo significa assumersi delle responsabilità, mettersi in gioco, e accettare le delusioni che ne conseguono. Sognare invece è così facile...

Quando per un attimo torna alla sua vita reale, finalmente scopre le carte a se stesso e decide di affrontare il mondo. Però la strada non è certo in discesa, anzi. La sua vicina di casa scialba (e ora pure impegnata con qualcuno che naturalmente rappresenta tutto ciò che Peter non ha) continua ad essere irraggiungibile, e ora oltre a non sentirsi realizzato come prima, non ha neanche più il rifugio dei sogni. Che fare, però, a questo punto? Scegliere la consapevolezza o l'immaginazione? La realtà o il sogno? Mentre aspettando il finale mi chiedevo anch'io quale fosse la risposta, ho capito. Perchè nel frattempo Peter Parker era tornato ad immaginarsi nemici da combattere, aveva ripreso a vedere la sua vicina di casa con le sembianze di un'attrice bellissima, ma qualcosa era cambiato. Ora anche lei vedeva quei mostri, ora anche lei vedeva in lui un supereroe. Perchè lui era riuscito a farla entrare nel suo mondo, a renderla partecipe delle sue fantasie, a farla sognare con lui. Ora lei poteva guardarlo un po' preoccupata dalla finestra mentre partiva volando tra i grattacieli per le sue missioni. Poteva aspettarlo per cena in trepidante attesa. Si sarebbe fatta raccontare tutte quelle fantastiche avventure al suo ritorno, questo è certo, e lei stessa avrebbe creato delle situazioni in cui sarebbe stata in pericolo e solo lui avrebbe potuto salvarla. Lei avrebbe fatto di lui il suo eroe, e lui avrebbe finalmente ottenuto l'oggetto del suo desiderio senza rinunciare al suo mondo fantastico. E tutto questo in barba a chi dice che bisogna affrontare la realtà. Questa via d'uscita mi apriva nuove prospettive inebrianti e con un entusiasmo incontenibile, alla fine del film, ad alta voce ho detto: "e dire che io l'ho sempre saputo..."

domenica 19 dicembre 2004

Il pacco-bara

Ogni tanto penso a come sarebbe bello regalare qualcosa fatto con le proprie mani, uno di quei lavori che porti avanti per mesi, nei ritagli di tempo, magari la sera invece di guardarti un film. E mentre crei qualcosa pensi ai tuoi problemi, a cosa farai domani, a tutto quello che l'oroscopo ti diceva di fare e che invece non hai fatto...e soprattutto pensi alla persona che riceverà quel regalo. Ai suoi occhi che guarderanno quell'oggetto e al suo sguardo quando capirà che non è un oggetto comperato. Forse quella persona non saprà mai quanto lavoro c'è voluto, forse si immaginerà solo una piccola parte dei tuoi pensieri dietro a quell'oggetto, ma sicuramente sarà difficile che lo dimentichi. Anche se non era natale, ricordo ancora il regalo che Diego preparò per Juliette, quest'estate.
Diego al lavoro sulla maschera.
Voleva farle una sorpresa per il suo compleanno, era da un po' che ci pensava. C'era un'idea in particolare che gli frullava in testa: una maschera che ricordasse il carnevale, le feste alla eyes wide shut e i riti tribali africani, o qualcosa del genere. Ma quando cominciò a lavorare con la cartapesta, lo ammetto, non avevo molta fiducia nella riuscita di quell'impresa. Poche settimane dopo, però, me lo vidi comparire davanti all'uscio di casa con quell'affare nero in testa, e capii che avevo sbagliato, perchè c'era riuscito. Si mise in posa in camera mia, orgoglioso di quell'abilità manuale che è la cosa che più gli invidio, visto che io al massimo so incollare qualche foto in un collage... Ma allora non pensavo neanche lontanamente che avrebbe preparato un'altra cosa ancora più eccezionale di quella maschera.
Diego prova la maschera nella mia mansarda.

Certo, tante volte parlando di pacchetti da spedire avevamo immaginato qualcosa di simbolico. Che ne so, un pacchetto d'addio come se fosse la tomba di un amore, per esempio, era stato più volte un argomento delle nostre conversazioni da sbronzi, ma allora era stata più un'ardita metafora che un progetto da realizzare concretamente. Anche perchè la persona a cui mandi una cosa del genere, se non è preparata, potrebbe non prenderla troppo bene. E così quando mi annunciò di aver preparato un pacco postale a forma di bara modellando del cartone che avevamo raccolto assieme un venerdì sera (a Udine è il giorno in cui i negozi lasciano fuori dalla porta i rifiuti della settimana) rimasi a bocca aperta. Ancor più quando lo vidi. E pensare che erano solo degli innocui contenitori della Benetton, fu la prima cosa che pensai. Subito dopo immaginai la faccia della signorina del Mail Boxes di Udine, quando si vide consegnare da questo ragazzo gentile una piccola bara bianca, che da lontano poteva sembrare in tutto e per tutto una bara vera. Forse all'inizio sarà stata sfiorata dall'idea di obiettare qualcosa tipo: 'no, guardi che il traffico di corpi umani è proibito'. Ma poi magari, avvicinandosi, avrà pensato allo scherzo di un simpatico burlone. E invece non era nessuna delle due cose, ma lei non poteva saperlo. In quel pacco, come nel suo contenuto, c'era una piccola ma allo stesso grande parte dell'immaginario di Diego. Una porta per entrare nel suo mondo, un po' spaventoso e un po' grottesco, come in quei film horror horror talmente esagerati che fanno ridere. Ma è un prendersi gioco della vita, più che della morte, perchè la morte è sempre trattata con rispetto, quasi con una punta di ammirazione. E' tutto l'affanno che la precede, semmai, che ci farà sorridere, quando saremo vecchi.
Il pacco-bara.


No, non era uno scherzo di cattivo gusto, o una bravata. Era solo un modo, originale forse, di descriversi, di comunicare e, perchè no, di sedurre. Certo, dipende sempre da chi si vuole realmente sedurre. Le armi della seduzione potenzialmente possono essere infinite, ma quando se ne sceglie una bisogna sempre pensare se servirà più ad ottenere lo scopo che ci siamo prefissati o a esprimere come siamo fatti veramente. Di solito le persone come me e Diego si preoccupano di più del secondo aspetto, e forse è proprio a causa di questo conflitto tra lo scopo e i mezzi utilizzati per ottenerlo che ultimamente le nostre fortune con le donne sono, diciamo così, altalenanti. Ma che gusto ci sarebbe a sedurre qualcuno senza poter poi raccontare ai nostri bambini quanto eravamo stupidi allora e, perchè no, innamorati.
Il pacco-bara giunto a destinazione.

martedì 14 dicembre 2004

Il pesante sacco della posta

"Più la società diventa immateriale nelle sue forme di rappresentazione e comunicazione,
e tanto più l'oggetto assume una sua definizione concreta, tattile, a tratti consolatoria."

Leggo e rileggo questa frase, come un disco rotto, cambiando appena intonazione ogni volta, e osservo i pochi regali di natale che ho preso quest'anno, sparsi nel caos della mia scrivania.
Nessuno potrebbe negare che io sia un prodotto di questa società, direi. Passo molto tempo al computer, amo la tecnologia, le comodità, niente di quello che faccio per passione e per hobby sarebbe stato possibile, che ne so, prima degli anni '40, a dire tanto. Eppure, penso, se sono davvero un prodotto della società di consumo, allora sono un prodotto difettoso di questa società. Non abbastanza moderno e neppure troppo vecchio. O forse semplicemente nostalgico, per presa di posizione.
Certo, anche gli sms o una semplice riga di testo possono trasmettere delle emozioni, l'ho provato. Una email può lasciarti senza respiro, e l'amore più puro è immateriale, va bene, ma evidentemente sono feticista e lo sono sempre stato, perchè e non c'è niente più degli oggetti che possa trasmettermi la presenza di una persona a cui tengo. Tranne la presenza stessa di quella persona, naturalmente.
Per feticista non intendo malato o morboso, sono due cose distinte, separate a volte da un filo sottile quanto un capello, ma sono due cose diverse. Semplicemente posso amare qualsiasi - e dico qualsiasi - oggetto che mi ricorda una persona a cui voglio bene perchè è suo, posso guardarlo con la stessa tenerezza con cui guarderei ciò che rappresenta per me, e non posso negare di aver detto qualche tenerezza a degli oggetti, e a volte anche a delle email, o a dei messaggi, come se avessi davanti non delle cose o delle parole digitate, ma le persone alle quali indirettamente mi rimandavano. Certo, nella solitudine della mia stanza nessuno può stupirsi per un "pucci, dolce tesoro mio, quanto ti voglio bene" rivolto a un pupazzo di plastica, o ancora peggio al nome di una persona che appare sul display del mio cellulare dopo uno squillo, e ammetto che in passato è successo.
Allo stesso modo mi piace circondare le persone a cui tengo di oggetti che mi ricordano, forse perchè in certi casi la loro presenza è molto più duratura della mia. E così delle semplici ciabattine di resina poggiate su un piccolo panno di stoffa giapponese potrebbero per sempre ricordare il tempo che ho passato (e il tempo che non ho passato) insieme a qualcuno. Non perchè siano mai esistite nella realtà delle ciabatte simili, ma perchè io ho attribuito ad esse dei significati che voglio condividere con quella persona. Che ne so, le ciabatte possono evocare per esempio protezione (dei piedi), comodità (si usano soprattutto in casa), morbidezza dei passi (
la moquette a fiori su cui poggiano) e mille alte cose. Ma soprattutto evocano me, visto che non ci sono tante altre persone che fanno regali così inutili.

A pensarci bene. anche dare un cd masterizzato con degli mp3 può sembrare una cosa tecnologica, fredda, immateriale, ma come può esserlo se l'immagine che ho scelto per rappresentarlo è il capo reclinato sul cuscino di una ragazza che dorme, anzi, a vedere meglio non dorme, perchè quella ragazza in "vivre sa vie" di Godard per vivere fa la prostituta, e non è felice perchè nessuno le ha mai insegnato a esserlo. Come può essere freddo un cd se lo avvolgo in un caldo panno di pile con l'effigie di un coniglietto triste con un cestino in mano. No, non può davvero essere freddo.

Anche l'oggetto che materialmente comunica e unisce è a sua volta una rappresentazione. I pacchetti informatici (quale ingiusta metafora) non potranno mai essere deliziosamente gialli e squadrati come la scatola-libro delle Poste Italiane. Quel colore giallo, che ti fa pensare alle pannocchie che cadono dal cielo per un ritardo, come in una pubblicità di non troppo tempo fa. Quella forma squadrata, che ti ricorda la sporta degli operai nei film anni '50 o, che ne so, le cartelline dei bambini nel libro cuore. Quella cedolina da riempire che, quando arrivi alla casellina "contenuto", ti lascia senza parole. Vorresti scrivere "sono io, il contenuto", perchè a scrivere solo i nomi degli oggetti ti sembra di svilirli. E forse non è proprio il caso di scriverli, a volte...

Ci sono tanti modi per trasformare qualcosa di anonimo in "nostro". E qui le cose immateriali avranno sempre un handicap rispetto agli oggetti. Puoi comprare videotelefoni, webcam, connessioni veloci, ma il miglior simulacro della nostra presenza rimarranno gli oggetti. Non solo per la loro fisicità, ma per la loro varietà infinita e personalizzabile, da parte di chiunque. Perchè quando una persona apre quella scatola gialla è come se aprisse un mondo, il tuo mondo.
Quando il suo sguardo si poserà sulle stelline argentate infilate in ogni remota fessura tra il panno, il cd e il bigliettino... Quando troverà le scarpine di resina posate su un prezioso tappeto di fiori giapponesi... Quando sentirà l'odore del mio profumo che si spande nell'aria, lentamente... Ecco, proprio allora penserà a quando era piccola e scartava i regali di natale, a tutte le volte in cui si è sentita sola, a tutte le volte in cui ha litigato con i suoi genitori e avrebbe voluto fuggire via, a come sarà quando diventerà grande, se mai lo diventerà del tutto, e solo alla fine penserà che si, guardando quelle cose è come se guardasse me. Ma questo, forse, in quel momento non è tanto importante. D'altra parte se si fanno certe cose non è perchè si è in cerca di effimera gloria personale, ma è solo per lasciare una traccia di sè agli altri. Basta sapere questo
, in fondo, per poter dire che ne è valsa la pena.

"ti amo come guardo il pesante sacco della posta
non so che cosa contenga e da chi
pieno di gioia pieno di sospetto agitato"
(Nazim Hikmet, 1959)

mercoledì 8 dicembre 2004

Dreams are my reality

Come ogni volta non so se sono io a fissarmi o è la catena delle casualità a pormi di fronte a strane coincidenze, fatto sta che ultimamente, ovunque mi giri, qualsiasi cosa vedo o leggo parla di sogni. In questo caso, più che di mete ideali a cui si aspira, si tratta di sogni da addormentati. Che poi molte volte sono la stessa cosa, in fondo. Anche se a differenza dei sogni ad occhi aperti, che si possono controllare, i sogni che facciamo durante il sonno possono dare forma non solo ai nostri desideri, ma a paure che forse non ci rendiamo neanche bene conto di avere.

Analista: Mi dica, a quale sogno si riferisce?
Pingu: A quello di stanotte. Mi sono svegliato con una strana sensazione, che mi ricordava quella di quei sogni che facevo spesso da bambino...il terremoto, mia mamma che corre in camera a prendermi, mi avvolge nella coperta, i muri traballano, pezzi di intonaco cadono sul pavimento, è buio dappertutto...
Analista: E poi?
Pingu: E poi mi veste alla meno peggio, con una maglia messa all'incontrario, i calzetti, sono tutto spettinato...capisco cosa sta succedendo ma sono ancora troppo assonnato per realizzare che è vero. E così non reagisco. Poi quando siamo ormai fuori pericolo, in giardino, mi accorgo che si è dimenticata di prendermi le scarpe! E mi faccio male, camminando sui calcinacci sparsi ovunque, ma la casa resta in piedi. Non crolla.
Analista: E il sogno di ieri notte? In che modo le ricorda questo?
Pingu: Beh, ero in giro con un mio amico, Diego, boh, i nostri soliti giri a casaccio nei locali di notte, apparentemente senza meta, e conosciamo questa ragazza. E' ubriaca, o almeno così penso io perchè comincia a parlare con noi.
Analista: Pensa che parli con voi solo perchè è ubriaca?
Pingu: Beh, non so, forse è solo molto espansiva. Mi porta nell'albergo di sua madre lì vicino, è tutto di legno, sembra una baita ma è in città, in centro. Ma non mi presenta ai suoi amici, o presunti tali, che popolano quell'albergo, e neppure a sua madre. Ah, mi ero dimenticato, poco prima ci eravamo anche baciati, ed ero felice.
Analista: Continui...
Pingu: Poi mi lascia solo per un po', raggiungo la piazza dove eravamo prima, e quando torna quasi non mi riconosce. Io le vado vicino, con discrezione, non è che le salti addosso o cosa, sono troppo orgoglioso, e aspetto che sia lei a fare la prima mossa, ma niente. Sembra si sia dimenticata di me, e chiacchiera tra i suoi amici (uno mi sembra particolarmente "intimo", ma nessun atteggiamento me lo suggerisce, lo sento soltanto).
Analista: E alla fine qualcuno dei due tenta di avvicinarsi all'altro?
Pingu: Io, timidamente, le parlo per capire se si ricorda di avermi baciato poco prima. Il suo amico, ubriaco, ci disturba, interrompe. Lei è ancora peggio di prima, e o non capisce o fa finta di non capire. Ride, ma non credo di me, forse della situazione, e prima che il tutto diventi patetico mi allontano, in silenzio. Così, le giro le spalle e vado via.
Analista: E mentre va via, a cosa sta pensando?
Pingu: Che non la rivedrò, credo, ma poi mi sono svegliato quasi subito.

Poco tempo fa ho trovato non ricordo come i dipinti di Marion Peck: sembrano usciti da un mondo fantastico a metà strada tra il sogno e l'incubo. Un po' come quando eravamo piccoli e la mattina, al risveglio, più che la storia di ciò che avevamo sognato ci ricordavamo solo un'immagine che a pensarci evocava spavento e stupore. Mi capitavano più spesso da bambino, si, ora invece sogno quasi sempre persone reali, storie, o semplicemente non mi ricordo nulla. Quei quadri mi sono tornati in mente quando ho letto 'la casa del sonno' di Jonathan Coe, un bellissimo libro in cui tutti i personaggi hanno dei problemi legati al sonno. Chi non dorme mai, chi dorme quando dovrebbe stare sveglio, chi vorrebbe dormire per evadere dalla realtà e chi vorrebbe sottrarre sempre più ore al sonno perchè lo considera uno spreco inutile di tempo. E dove si parla di sonno non si può non parlare di sogni: qualcuno sogna cose talmente verosimili da confonderle con la realtà, e qualcun altro sogna, senza neanche aver bisogno di dormire, cose che non accadranno mai. O forse si. Ma per riassumere la storia del libro dovrei scrivere a sua volta un piccolo libro, e non è proprio il caso. C'è un brano, però, che mi ha fatto pensare al parallelo tra i sogni che facciamo da svegli e quelli che facciamo nel sonno.

'Terry era perseguitato dai sogni: sogni, insisteva lui, di una bellezza pressocchè paradisiaca; sogni di giardini screziati di sole, di panorami sublimi, di edeniche scampagnate e perfetti convegni sessuali che univano l'estasi della carne all'innocenza prima della Caduta. Sogni che possedevano i pregi delle più aurorali e idealizzate memorie d'infanzia e che surclassavano le facoltà inventive del più fertile, provetto e tenace fantasista. Ogni notte era visitato da questi sogni. Ogni notte essi lo seducevano e tormentavano: questo, almeno questo, Terry lo sapeva. Ma nello stesso tempo non era mai in grado di fornirne alcun dettaglio specifico, perchè il loro tratto peculiare consisteva nello scivolare ogni mattina oltre la portata della sua memoria protesa, nei pochi secondi fatali che gli occorrevano per riprendere coscienza. Terry era un oniromane: i suoi sogni costituivano la parte più pura, preziosa e necessaria della sua vita, e per questo trascorreva almeno quattordici ore al giorno dando loro la caccia attraverso la sua mente addormentata. Era questo a dannarlo: il non riuscire a ricordarne altro che frammenti risibili, per cui non poteva mai descriverli a nessuno, nè trarre conforto dal loro ricordo quando era sveglio. Di tanto in tanto, è vero, esigui lacerti e brandelli di un sogno affioravano all'improvviso, e lui se li appuntava in fretta e furia su qualsiasi cosa avesse a portata di mano: non di rado i suoi blocchi di appunti su (mettiamo) la costruzione dell'immagine femminile nel film noir erano punteggiati di frasi criptiche quali "profumo di rose; il respiro caldo di un leone", o "una vallata; una donna; pappi", oppure "nudo tra i rami di un pero". Ma era una misera ricompensa; nemmeno lontanamente tale, Terry ne era consapevole, da compensare questa tremenda cognizione: durante la notte gli era offerta la visione di un mondo migliore, ma destinato a oscillare per sempre fuori dalla sua portata.'

Ogni tanto capita di fare dei sogni talmente belli, talmente inafferrabili, che vorresti inseguirli per non farli finire mai, quando senti che li stai perdendo, al risveglio. E poi avresti voglia di prendere un appunto su un foglio di carta, o fare un disegno che riesca a fermare la loro natura ambigua e sfuggente, ma non lo fai quasi mai. Dopo un po' li lasci andare, perchè capisci che sono loro che seguono te. E' un po' come per i ricordi, a volte vorrei davvero aver fermato tutto con una fotografia, un filmato, per riguardare quello che è successo ed essere sicuro che è vero. Forse vorrei aver vissuto di più e sognato di meno. E invece quando mi volto indietro a guardare ciò che è stato, quello che vedo mi sembra solo il frutto delle mie fantasie, dei miei desideri, proprio come in un sogno. Ma in fondo che cosa importa se certe cose le hai solo immaginate, o sono successe veramente. Si è già fortunati ad avere qualcosa da raccontare, soprattutto se ripenso a quando avevo 16 anni, mi sentivo solo al mondo, ed ero davvero convinto che...

The dreams in which i'm dying, I sogni nei quali sto morendo
Are the best I've ever had Sono i migliori che io abbia mai fatto

(da 'Mad world' dei Tears for fears; la cover rifatta da Gary Jules
è inclusa nella colonna sonora di 'Donnie Darko')

giovedì 2 dicembre 2004

mercoledì 1 dicembre 2004

Let’s talk about girls

Sabato scorso, in un bel locale vicino a Udine, c'era una serata dedicata alla musica psichedelica. Attirato dalla descrizione ("selvaggio garagerock, rare visioni dagli anni '60 e allucinatorie visioni contemporanee") ho deciso di andarci anche io. Il posto era davvero particolare, arredato con bellissimi poster, proiezioni sui muri e tantissimi accessori che richiamavano la psichedelia più 'hippie' di quarant'anni fa. La gente che vedevo lì intorno a me, però, era più o meno sempre la stessa che frequenta i (pochissimi) locali della zona in cui non suonano reggae, techno commerciale o i primi 10 successi che vanno in radio al momento. Un po' me l'aspettavo, sia chiaro, ma ho cominciato a riflettere sul fatto che, pur essendo in un ambiente stimolante e in mezzo a persone che avrei dovuto considerare miei simili, ero un po' a disagio lo stesso. Ed essendo le stesse persone che incontro da anni, quando giro per i locali della mia città, potevo concludere serenamente che mi ero sempre sentito a disagio. Ho preso due birre, una dopo l'altra, e ho cominciato a rifletterci su. A metà serata, mentre i miei due amici mi abbandonavano per parlare con due ragazze con un chiaro obiettivo in testa (che poi fosse andarci a letto, sposarle o portarle in un cimitero non aveva importanza), sono giunto alla conclusione che io non ne avevo neanche uno di obiettivo, che fosse per quella sera o per l'indomani mattina, quando mi sarei svegliato.

Io seduto nel salottino psichedelico.

Per mettere un po' di ordine nel mio cervello, ho accostato per un attimo le due conclusioni che avevo tratto, per vedere che effetto facesse: "mi sono sempre sentito a disagio anche nel gruppo dei miei simili" e "non ho obiettivi nella vita". Suonava più o meno così, e non era certo un bel sentire, ma devo dire che la sintesi mi diede come una corroborante sensazione di ordine, di tranquillità. E intanto, da solo in mezzo a tutte quelle persone che conoscevo solo di vista, guardavo i gruppi che suonavano sul palco, distrattamente. In realtà guardavo molto di più intorno a me, scrutavo quei volti visti tante volte, pensavo alle loro vite, a distanze per lo più immaginarie che li separavano da me, e davo di loro giudizi superficiali e arbitrari: ah, quello mi è stato sempre sulle palle, non posso vederlo; lei invece è carina, e dolce, proprio il tipo per me; no, quella invece è pazza; ah, guarda com'è invecchiato, quello, facevamo ginnastica insieme e sembra che abbia 10 anni di più, chissà cosa fa ora; che bel fermaglio che ha quella ragazza, anche i suoi capelli sono molto belli; le ragazze con la frangetta corta hanno sempre quell'aria così cattiva; quella ragazza mi guarda, ma forse perchè la sto fissando; quello là mi sembra di conoscerlo, aveva avuto una storia con una mia ex ragazza, ora mi avvicino e lo osservo un po'.

Fili luminosi che addobbavano il locale.

Era proprio una vecchia fiamma di una mia ex ragazza, ma più che starci assieme avevano solo avuto una breve storiella, prima che io la conoscessi. Anzi, poco più di qualche bacio, mi pare. Ma allora ero molto geloso, e non gliel'avevo mai perdonato (a lui). Come si era permesso, di baciarla una sera e di non amarla devotamente per il resto della vita, cazzo. Anzi, era stato proprio un animale, una bestia schifosa così bestiale da farla soffrire, per giunta. Solo a parlarne mi andava il sangue alla testa, a quei tempi. Ora invece era lì, a pochi passi da me, e non sembravo particolarmente risentito. Anzi, pochi minuti dopo, quando l'ho visto salire sul palco a suonare, non mi sono allontanato polemicamente ma sono rimasto lì a guardarlo. Erano passati degli anni, in fondo. E poi, con gli altri due miei amici che ormai consideravo persi, le alternative erano continuare a bere o andarmene fuori da solo a fare due passi lungo il fiume (cosa che peraltro avrei anche fatto, se non fosse stato così freddo).
Il concerto non era così interessante, a parte una cover di uno dei miei gruppi preferiti di quando avevo 17 anni, la Chocolate Watch Band, ma io più che ascoltare guardavo lui, e pensavo...

Uno dei manifesti che ornavano le pareti del locale.

Nove anni fa studiavo ancora a Padova. Allora passavo la mattina a dormire e i pomeriggi alla Feltrinelli o a fare il tour di tutti i negozi di dischi della città, era così rilassante... La sera o uscivo con gli amici o elaboravo piani per conquistare le ragazze che mi piacevano all'epoca (alla fine era una sola, anche se vari volti si sovrapponevano al suo, di tanto in tanto). A volte però pregustavo l'idea di un incontro, diciamo così, casuale. L'esperienza delle feste universitarie fu tragica. La musica non mi piaceva, e alla fine la serata si risolveva nell'urlare all'orecchio di qualcuno poche parole e in lunghi giri per il locale fingendo di avere l'aria di chi sta andando da qualche parte, non a zonzo senza meta e senza nessuno a cui rivolgere la parola. Un giorno, allora, decisi di affidare la mia vita ad un messaggio nella bottiglia, nella speranza che arrivasse a destinazione. Avrei tanto voluto vedere il concerto degli Smashing Pumpkins, quel 24 aprile 1996, a Milano. E così poco prima misi un annuncio sulla bacheca fuori dalla Feltrinelli, chissà, forse qualcuno l'avrebbe letto e mi avrebbe chiamato. Forse quel qualcuno era proprio la persona che cercavo. Alla fine non chiamò nessuno. Il biglietto lo andai a staccare io stesso, il giorno dopo il concerto. Me ne sono ricordato poche settimane fa, quando l'ho trovato dentro "la nausea" di Sartre, dovevo averlo usato come segnalibro, nel 1995.

Dopo la breve parentesi di Padova cambiai facoltà e città, e cominciai a girare di più a Udine, soprattutto nei locali dove suonavano la musica che andava allora, la musica che ascoltavo anche io, tipo i Marlene Kuntz, gli Ustmamò, i Diaframma. Frequentavo i posti in cui spesso suonava anche la persona che avevo davanti a me sul palco, in un sabato di fine novembre nel 2004, nove anni dopo, e la coincidenza non poteva essere casuale. Anche allora ero in un periodo in cui mi sentivo a disagio pure nel gruppo dei miei simili e non avevo un obiettivo, ero depresso, dormivo molto e sognavo una persona che potesse cambiare la mia vita. Mentre il concerto stava finendo mi sono guardato attorno come per cercare di riconoscere, tra tutta quella gente in bianco e nero, una persona con un piccolissimo particolare a colori che mi avrebbe fatto capire che era lei: un fermaglio azzurro, una traccia di rossetto rosso sulle labbra, una pashmina rosa. Otto anni fa la trovai, e pensare a questa coincidenza mi metteva di buon umore, quasi fosse un presagio. Corsi e ricorsi, dicevo tra me e me.
Ad un tratto nella mia mente risuonarono le parole di Gianbattista Vico: "gli uomini prima sentono senza avvertire, poi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente". Sarebbe bello che anche le fasi della mia vita fossero cicliche come quelle della storia per Vico - pensavo - allora adesso sarei pronto a vivere una seconda giovinezza. Alla fine della serata, camminando invisibile in mezzo alla gente che sfollava, mi sono sentito improvvisamente fortunato, perchè stavo aspettando qualcosa che doveva ancora arrivare. Nel viaggio di ritorno, in macchina, senza accorgermene ho messo su un cd con "be my baby" delle ronnettes. Sembrava di essere all'inizio di un film, o alla fine, quando iniziano a scorrere i titoli di coda. No, non stavo guardando nè mean streets nè dirty dancing. Questa volta era la mia vita, anche se non ero più tanto sicuro di quale fosse. Era la prima, la seconda o quella che doveva ancora venire? Dopo aver messo la macchina in garage sono salito in camera e mi sono buttato sul letto, sfinito. Mi sono addormentato in un attimo, e ho fatto un sogno che non ricordo.

The night we met I knew I needed you so
And if I had the chance I'd never let you go
So won't you say you love me
I'll make you so proud of me
We'll make 'em turn their heads
Every place we go
So won't you please

(Be my be my baby) Be my little baby
(I want it only say) Say you'll be my darling
(Be my be my baby) Be my baby now
(I want it only say) Ooh, ohh, ohh, oh

domenica 28 novembre 2004

Cineracconto illustrato

Quando guardo i libri di fotografie sul cinema della Taschen penso sempre al fatto che, seguendo un film in tempo reale, riusciamo a cogliere solo una parte infinitesimale dei dettagli o delle sfumature di ogni scena. Guardando invece le foto tratte da un film che ho già visto, mi accorgo di particolari che non avrei notato neanche rivedendolo dieci volte. Sarebbe bello poter sfogliare, uscendo dal cinema dopo aver visto un bel film, uno di quegli albi che davano come supplemento alle riviste di cinema negli anni '30, con lo stesso film raccontato da una serie di fotogrammi con le didascalie e qualche dialogo.
Stasera, mentre guardavo 'deserto rosso' di Antonioni, pensavo a come avrebbero potuto raccontare in quel modo un film del genere, senza azione e con dialoghi in bilico tra lo psicologico e l'alienato. Alla fine ho provato a farlo io, anche se poi mi sono accorto che le immagini e le frasi che più mi avevano colpito non raccontavano la storia del film, ma di una persona che avevo rivisto e ricordato attraverso la protagonista di quel film. Forse perchè quando vedevo Giuliana, appoggiata a quel muro alle sue spalle come se le servisse per restare in equilibrio, mi sembrava di vederti.

Giuliana: Cercava me?
Corrado: Stavo...stavo andando qui vicino e l'ho vista entrare...
No, non è vero, non voglio cominciare con una bugia.
Giuliana: Cominciare che cosa?
Corrado: Niente, a parlare. Mi dispiace che...

Giuliana: Ugo le ha parlato di me?
Corrado: No. Cioè, mi ha detto che avete un bambino. Sapevo che si era sposato, ma non con chi.
Giuliana: Nient'altro?
Corrado: Si, del negozio.

Giuliana: Dimmi la verità, te ne ha parlato?
Corrado: Chi?
Giuliana: Ugo, dell'incidente.
Corrado: Si, si. Ma non è stato grave, no?
Mi ha detto che sei rimasta un po' in clinica, per lo shock.
Giuliana:
Ho conosciuto una ragazza
Corrado: Dove?
Giuliana:
Corrado: Vuoi dire in clinica?
Giuliana: Stava molto male...è che voleva avere tutto.
Corrado: Tutto che cosa.
Giuliana: Il dottore le diceva: lei deve imparare ad amare.
Amare una persona, o una cosa, suo marito, suo figlio, un lavoro, anche un cane.
Ma non marito, figlio, lavoro, cane, alberi, fiume...
Corrado: Ti ha mai detto che cosa sentiva?
Giuliana: Le mancava il pavimento, l'impressione di scivolare su un piano inclinato,
di andare giù, d'essere sempre lì lì per affogare, e non hai niente.

Giuliana: Non sta mai fermo. Mai, mai, mai... Io non riesco a guardare lungo il mare,
se no tutto quello che succede a terra non m'interessa più.



Giuliana: Io devo essere cretina. E' per questo che non me la so cavare. Sai cosa vorrei?
Tutte le persone che mi hanno voluto bene. Averle qui, intorno a me, come....un muro.

Giuliana: Chissà se c'è, al mondo, un posto dove si va a stare meglio. Forse no.

giovedì 25 novembre 2004

Bright eyes

Edie era arrivata a New York nel 1964, con tante speranze davanti a sè e tanti problemi che avrebbe voluto lasciarsi alle spalle, pur essendo ancora così giovane. Proveniva da una famiglia ricca, ma con una lunga storia di malattie mentali. Suo padre aveva sempre dovuto convivere con esaurimenti nervosi e depressione, e due dei suoi otto fratelli fin da piccoli sembravano soffrire dello stesso male. Suo fratello Minty si era suicidato all'età di 16 anni, mentre Bobby era costantemente seguito da uno psichiatra. Anche Edie era stata sottoposta a cure psichiatriche fin dall'adolescenza. Soffriva di anoressia, era in costante peggioramento e a 19 anni, durante la degenza in un ospedale per delle cure, rimase incinta e fu costretta ad abortire. Una volta dimessa, cominciò a frequentare il college a Cambridge, ma più che studiare girava negli ambienti degli artisti e dei dandy dell'epoca, tra i quali circolava soprattutto tanta droga, di ogni tipo. E così dopo un anno lasciò tutto per trasferirsi a New york. Fu lì che incontrò Andy per la prima volta, nel gennaio del 1965, a una festa in un appartamento di amici. Andy si accorse appena di lei, ma non poteva non aver notato i suoi capelli biondi e i suoi bellissimi, luccicanti occhi blu.

Edie era un angelo, ma aveva su di sè come un'aura negativa. Erano le droghe, diceva qualche maligno, ma non era solo quello. Non era mai riuscita ad avere una relazione soddisfacente con un uomo, conduceva una vita sregolata e poco salubre, e soprattutto non poteva liberarsi dai suoi problemi psichici. Eppure, quando nel marzo del '65 cominciò a frequentare assiduamente la Factory, tutto sembrava andare per il verso giusto. Andy la portò a Parigi per l'inaugurazione della mostra dei suoi 'Flowers', ma ormai si era stufato dei quadri. Ora voleva dedicarsi ai film, e Edie era quello che cercava. Dopo qualche apparizione in 'Vynil' e in 'Horse' e dopo un copione scritto per lei, 'Kitchen', arrivarono i consensi unanimi di 'Beauty No. 2'. Era il 1965. Andy l'aveva praticamente eletta regina della Factory, e già qualcuno nel giro, forse scherzando e forse no, la chiamava Mrs. Warhol. Si era anche tinta i capelli di biondo platino come lui. Chissà se Andy, egocentrico com'era, cominciava ad essere geloso di tutte queste attenzioni che le erano riservate, ma allora più di una persona pensava che sarebbe diventata la nuova Marilyn. Forse se le cose fossero andate diversamente lo sarebbe diventata davvero...

Fu il 1966 che segnò per sempre la vita di Edie. Uno dei primi ad interessarsi a lei per portarla fuori dalla Factory fu Bobby, che all'epoca era considerato niente meno che il braccio destro di Dylan. Si può dire che stessero anche insieme, per quello che voleva dire stare insieme, allora, a New York. Fu Bobby a far entrare Edie nel giro di Dylan.
Dylan frequentava sì ogni tanto la Factory, ma tra lui e Andy, o più che altro tra i due entourages, era in atto una specie di guerra fredda. Da una parte la Factory e il suo mondo di omosessuali, artisti, sbandati e fatti di anfetamine. Dall'altra parte un gruppo di eterosessuali dediti a droghe pesanti e acidi, alle spalle del più ricco e famoso cantautore dell'epoca. Tra questi due mondi non potevano non esserci contatti, ma quando c'erano celavano sempre un certo sospetto, una certa diffidenza (Dylan alla Factory era soprannominato benevolmente "the creep"). E così quando Edie cominciò a fare qualche progetto con Albert, il manager di Dylan, lo fece quasi di nascosto. Edie non ne era capace, ma avrebbe tanto voluto cantare, e così quando Albert le propose di entrare nel suo giro per diventare una cantante e fare un film con Bob, beh, lei non poteva crederci. E forse non poteva credere neanche al fatto di aver fatto breccia nel cuore di Dylan. Già, perchè tra loro sembrava appena nata una storia. Lui aveva trovato una ragazza che finalmente era in grado di rispondergli a tono, e lei si era pazzamente innamorata di lui. Potevano stare a letto a fare l'amore per ore ma se lui mancava un minuto soltanto, lei si sentiva svuotata, persa. Lui era l'amore e la promessa di uscire da quella vita di anfetamine e psicofarmaci, per essere finalmente felice come non lo era mai stata.

Andy intanto era completamente preso dal suo nuovo giocattolo, i Velvet Underground. Certo, la prima volta che aveva visto Lou sul palco non era rimasto granchè impressionato, ma ci avrebbe pensato lui a trasformarlo in quello che voleva: un gruppo con occhiali scuri e vestiti di pelle nera, una chantause bionda e fascinosa, uno spettacolo di luci, proiezioni di film e diapositive, dei ballerini che sfilano sul palco con fruste e stivali di pelle...
Nella mente di Andy c'era già tutto questo quando quasi per caso, per il ruolo della chanteuse, spuntò fuori il nome di Nico, una modella tedesca che aveva recitato qualche particina in alcuni film in Europa e portava con sè un demo 45 giri di una canzone che proprio Dylan aveva scritto per lei, 'i'll keep it with mine'. Già, era stato proprio Dylan a conoscerla, a Parigi, e a portarla a New York tramite il suo manager, Albert, che forse voleva vedere se lavorandoci su avrebbe potuto guadagnarci qualcosa. Ma per ora Nico non era nessuno, ed era famosa più per la sua storia con Brian Jones che per altro. Andy però era convinto che fosse ciò che gli serviva per completare i Velvet: con quel suo aspetto algido e statuario, quell'accento tedesco, quei capelli lisci e biondi era perfetta per ciò che aveva in mente. Che poi avesse una pronuncia un po' così e non sapesse cantare, beh, era un problema che non lo riguardava. E Edie? Nei primi spettacoli dei Velvet Underground i due ballerini principali erano proprio lei e Gerard Malanga, un caro amico e collaboratore di Andy. Era gennaio, nel 1966.

Edie e Andy erano in crisi da tempo. Lui la emarginava sempre più, preso dai suoi nuovi progetti, e lei era attratta dalle promesse di Albert per la sua futura carriera. Accanto a Bob. Poi, una sera di metà febbraio, mentre era al ristorante con Andy e gli altri del suo entourage, Edie gli disse che non poteva andare avanti così. Non sapeva che posto aveva nei Velvet, non aveva soldi con cui vivere, e di fronte a lui che le rispondeva di essere paziente, beh, a quel punto sbottò e gli disse che aveva firmato un contratto con Albert, che le aveva consigliato di non farsi più vedere in giro con lui perchè era una pessima pubblicità. Disse anche che d'ora in poi lui non avrebbe più dovuto mostrare i film in cui c'era lei, e che ora avrebbe girato un nuovo film con il clan di Dylan.
Andy, ferito nell'orgoglio, aveva capito che Edie aveva una cotta per Dylan, e il caso aveva voluto che proprio quella mattina, dal suo avvocato, avesse sentito che Bob pochi mesi prima si era sposato segretamente con la sua ragazza, Sarah. Così, per ferire Edie, la freddò dicendole: 'Ma lo sai che Bob Dylan è sposato?'. Lei rimase lì impietrita, impallidì e rispose, con la voce strozzata dall'emozione: 'Cosa? Non ci credo! Cosa?'. E poi scappò fuori a fare una telefonata, e capì che tutto quello che aveva pensato dentro di sè sulla sua relazione con Dylan era falso. Rotti i ponti con il suo passato, scopriva che il futuro che aveva immaginato era frutto della più crudele delle bugie, la più brutale delle falsità.
Di lei alla Factory si seppe poco altro, dopo quella volta. Andy non mostrò più i film di cui era protagonista e tolse anche dal suo nuovo film, Chelsea Girls, una parte in cui veniva ripresa. Al posto di quella sequenza fu messo un primo piano di Nico che piange, nella stanza numero 416 del Chelsea Hotel, con in sottofondo la musica dei Velvet Underground.

Edie da allora scivolò sempre di più nel baratro, tra droga e ospedali, tra progetti di film falliti, scadenti o mai realizzati. Provò anche a fare la modella, ma ormai era emarginata dal giro che conta, perchè era considerata da tutti una drogata, una pazza. Cominciò a girare il film 'Ciao! Manhattan'. Doveva essere un film su una modella di nome Susan in cerca di gloria, ma si trasformò in un film sulla sua vita. Per cinque anni i due registi, John e David, seguirono Edie nei suoi spostamenti, dentro e fuori le cliniche psichiatriche, tra debolezze e umiliazioni, cure e ricadute, fino a poco tempo prima della sua morte. Un'overdose di barbiturici la uccise il 15 Novembre del 1971, a soli 28 anni. La trovò morta Michael, un ragazzo che Edie aveva sposato proprio quell'anno, dopo averlo conosciuto in un ospedale psichiatrico.

Chi la conosceva sapeva che aveva ricevuto tante delusioni dalla vita, ma quella che le aveva dato Dylan era stata sicuramente la più grande. Forse perchè lui più di ogni altro era riuscito a farle credere nei sogni. Quella probabilmente fu davvero la sua ultima occasione.
Quasi per ironia della sorte, due canzoni famose di quegli anni erano state scritte pensando a lei: una era dei Velvet Underground, che allora erano il gruppo di Andy, e l'altra proprio di Dylan. Quelle due canzoni, più che raccontare della sua bellezza e dei suoi bellissimi, luccicanti occhi blu, raccontano la triste storia di una persona che avrebbe desiderato soltanto di essere amata, ma che alla fine fu abbandonata da tutti. Basta leggerne qualche strofa pensando a lei e non saranno più le stesse per chi le ascolta.

Femme fatale

Here she comes, you better watch your step eccola che arriva, meglio che stai attento a dove vai
She's going to break your heart in two, it's true ti spezzerà in due parti il cuore, davvero
It's not hard to realize non è difficile capirlo
Just look into her false colored eyes basta guardarla negli occhi colorati di finto
She builds you up to just put you down, what a clown ti costruisce solo per buttarti giù, che pagliaccio

'Cause everybody knows perché tutti sanno
(She's a femme fatale) (lei è una femme fatale)
The things she does to please quello che fa per farsi piacere
She's just a little tease è solo una piccola stronza
(She's a femme fatale) (lei è una femme fatale)
See the way she walks guarda come cammina
Hear the way she talks senti come parla

Just like a woman

It was raining from the first stava piovendo fin dall'inizio
And I was dying there of thirst, so I came in here ed io ero lì che morivo di sete, così sono entrato
And your long-time curse hurts e la tua antica maledizione ferisce
But what's worse Is this pain in here ma quel che è peggio è questo dolore
I can't stay, ain't it clear that i just can't fitin here non posso restare qui, è chiaro che proprio non ci riesco

Yes, I believe it's time for us to quit sì, credo sia ora per noi di lasciarci
When we meet again introduced as friends quando ci riincontreremo e ci presenteranno
Please don't let on that you knew me when per piacere non far capire che mi conoscevi
I was hungry and it was your world quando io ero affamato ed era il tuo mondo

Ah, you fake just like a woman, yes, you do ah tu fingi proprio come una donna, sì
You make love just like a woman, yes, you do tu fai l'amore proprio come una donna, sì
Then you ache just like a woman poi soffri proprio come una donna
But you break just like a little girl ma piangi come una ragazzina

Tutti quelli che hanno vissuto quei giorni ricordano che la protagonista di 'just like a woman' è Edie. Solo Dylan, quando gli venne chiesto di lei, fu capace di dire: 'non ho avuto molto a che fare con Edie Sedgwick, non la ricordo tanto bene. (...) Non ricordo nessun tipo di relazione. Se c'è stata una relazione, penso di non ricordarmela' (da un'intervista a Spin del 1985).

giovedì 18 novembre 2004

Dolls

Come ho già scritto in un vecchio post, quando ero piccolo giocavo spesso con i giocattoli di mio fratello più grande. Ogni tanto riuscivo a farmi accompagnare in soffitta e, frugando negli scatoloni, trovavo eserciti di soldatini tedeschi, o i mezzi da sbarco degli alleati in normandia. A volte, se ero particolarmente fortunato, riuscivo a trovare un cavallo di Troia in miniatura ove potevo stipare soldatini egiziani, romani o quant'altro mi passasse tra le mani in quel momento.
Così, come tradizione vuole, oggi i miei nipoti saccheggiano la soffitta come orde di barbari, alla ricerca di qualsiasi cosa possa sembrare un giocattolo. Non è che si curino poi tanto di che giocattolo è. Prima arraffano più che possono, si riempiono le tasche, le mani e gli zainetti delle cose più disparate: racchette da tennis, vestiti di carnevale, trenini che non funzionano da secoli e secoli. Poi, una volta compiuto il sacco, comincia l'esame del bottino, in cucina. A volte va bene, e se ne tornano a casa con il mio glorioso galeone dei playmobil con i cannoni e le palle di cannone. Altre volte c'è qualcosa di troppo difficile da montare, o in cui è troppo difficile immedesimarsi, per un bambino che ha 5 anni nel 2004.
Quando la mia nipotina ha tirato fuori da un sacchetto polveroso un meraviglioso salotto vintage anni '60, è rimasta lì ferma, allibita. Non aveva mai visto in nessun salotto quelle poltrone che sembravano uscite da un catalogo Ikea di quarant'anni fa, e neppure quelle donne bellissime con quei vestiti etno-chic e quei capelli biondi e vaporosi. In casa abbiamo tutti i capelli neri o castani, forse è stato quello, o forse no. Fatto sta che pur avendole amorevolmente ricomposto il salotto come doveva essere in origine, con le signore sedute a chiacchierare di piacevoli amenità sorseggiando una tazza di caffè o un punch, non ha voluto portarselo a casa. Ha preso solo le tazzine e la brocca, con cui verserà da bere ad altre bambole più attuali di queste.

Forse un po' deluso, sono rimasto lì ancora un po' a guardare quelle tre belle signore sedute nel salotto, prima di rimetterle nello scatolone e condannarle all'oblio dal quale per un attimo erano emerse. All'inizio non mi erano sembrate poi così vecchie, ma ora erano diventate dei fantasmi, delle figure irreali di un tempo che nessuno più ricordava, e che potevi ritrovare solo in qualche fotografia, o in qualche vecchio film. Poi tutto a un tratto, nel silenzio della stanza, ho cominciato ad avvertire un brusio dapprima indistinto, ma che diventava sempre più chiaro. Piano piano cominciai a sentire quella che a me sembrava in tutto e per tutto la conversazione di quelle tre donne, in quel salotto. L'ho trascritta subito dopo, per non scordarmela.


(si sentono dei confusi rumori di fondo)
'(...) idea di suicidio; idea di separazione; idea di ritiro solitario; idea di viaggio; idea di oblazione, ecc.;
posso immaginare varie soluzioni alla crisi amorosa e difatti non faccio che pensare a questo.'

'Nel lutto reale, è la «prova di realtà» a mostrarmi che l'oggetto amato ha cessato di esistere. Nel lutto amoroso, l'oggetto non è né morto né lontano. Sono io a decidere che la sua immagine deve morire (e questa morte, io potrò addirittura arrivare a nascondergliela). Per tutto il tempo che durerà questo strano lutto, dovrò portare il peso di due infelicità fra loro contrarie: soffrire per il fatto che l'altro sia presente (e che continui, suo malgrado, a farmi del male) e affliggermi per il fatto che egli sia morto (se non altro, che sia morto quello che io amavo).'

'L'assillo amoroso comporta un dispendio di energie che logora il corpo quanto un duro lavoro fisico. «Soffrivo talmente, - dice qualcuno, - tutto il giorno lottavo a tal punto con l'immagine dell'essere amato che, la notte, dormivo come un ghiro.»'

'L'imperfetto è il tempo della fascinazione: sembra vivo, mentre invece non si muove: presenza imperfetta, morte imperfetta; né oblio né resurrezione; semplicemente, l'estenuante illusione della memoria.'

mercoledì 17 novembre 2004

Blankets

Mentre leggevo la storia raccontata meravigliosamente da Craig Thompson in Blankets, anch'io ho desiderato di poter scrivere il romanzo della mia formazione a fumetti. Certe volte rimpiango veramente di non avere il dono per le attività manuali, che siano saper suonare la chitarra o disegnare. Peccato, perchè sarebbe venuta fuori proprio una di quelle storie che piacciono a me, ma che ci posso fare, amo avere degli alibi per non dover fare cose troppo impegnative...

Un particolare della copertina dell'edizione americana di 'Blankets'.

Blankets è più di un fumetto, è un pezzo di vita di chi l'ha pensato, creato, disegnato, e anche se non tutto dev'essere accaduto proprio così poco importa, perchè potrebbe benissimo essere successo. Forse qualcosa di simile è capitato anche nella vita di chi lo legge. Molte persone hanno avuto una Raina che ha cambiato la loro vita. Non tutti però, se dovessero raccontare la loro storia, citerebbero la Bibbia e Platone, direbbero di aver ascoltato i Cure e i Dinosaur Jr. e accosterebbero sulla parete di una cameretta le immagini del piccolo principe, di Gesù Cristo e di Kurt Cobain. Non tutti parlerebbero di compilation e di lettere, di distanze e di telefonate che più che avvicinare allontanano, di corse sulla neve e di letti su cui andare alla deriva, di un'infanzia solitaria e di un'adolescenza con tante domande senza risposta.
Forse è vero, le storie d'amore alla fine si assomigliano tutte: c'è sempre l'incertezza, l'entusiasmo e poi, inesorabile, l'addio. Ma non è certo questo che poi ognuno si ricorda, sono altre le cose a cui pensiamo quando vogliamo raccontare agli altri una storia che abbiamo vissuto
come se fosse un romanzo. Un romanzo speciale. Il nostro romanzo. Per esempio invece della coperta (blankets) di Craig io potrei avere, che ne so, un quadrifoglio salvato dalla ciotola del coniglio, una conchiglia rosa, una talpa di peluche, una polaroid compromettente, un paio di calzini. Tutte cose che non sarebbero mai esistite senza quel primo incontro, quello sguardo imbarazzato e la decisione, nemmeno io saprei dire di preciso il perchè, di far entrare qualcuno nella mia vita.


Girl afraid ragazza spaventata
Where do his intentions lay?
lui che intenzioni ha?

Or does he even have any?
ma poi avrà qualche intenzione?

Boy afraid ragazzo spaventato
Prudence never pays la prudenza non paga mai
And everything she wants costs money
e tutto quello che lei vuole costa caro

(Smiths, Girl Afraid)

Quando ho visto Raina e Craig sdraiati l'uno accanto all'altro sul letto a parlare di quando erano bambini,
beh, un brivido mi è passato lungo la schiena. Lei sembrava davvero un angelo,
quando ha cominciato a cantare sussurrando "Just like heaven".

Show me how you do it mostrami come fai
And I promise you I promise that e ti prometto, ti prometto che
I’ll run away with you scapperò via con te
I’ll run away with you
scapperò via con te

(Cure, Just like heaven)

Lei era un angelo.

Mentre lei gli preparava la valigia, mi è venuta in mente "At the hop",
la ascolto spesso in questi giorni. Ci sarebbe stata proprio bene, in quella scena.

Put me in your suitcase mettimi nella tua valigia
Let me help you pack lascia che ti aiuti a chiuderla
'Cause you're never coming back perchè non ritornerai più
No, you're never coming back no, non ritornerai più

(Devendra Banhart, At the hop)

Il finale della storia non è un finale vero e proprio, è uno dei tanti finali della nostra vita, che forse sarebbero meno drammatici se riuscissimo a capire fin da subito che non è poi così difficile ricominciare e dare una svolta alla nostra vita, come succede al protagonista. Però se devo dire la verità io odio gli addii, l'ho sempre detto, ma questa in fondo era la storia di Craig, non la mia.

Yesterday the sky was you ieri il cielo eri tu
And I still feel the same
ed io mi sento sempre allo stesso modo
Nothing left for me to do
niente è rimasto da fare per me
And I still feel the same ed io mi sento sempre allo stesso modo

(Smashing Pumpkins, Drown)

Un particolare della copertina dell'edizione italiana di Blankets.

martedì 9 novembre 2004

Traguardi

Ero partito con determinate premesse che ora non ci sono più, e non posso continuare a fare l'inventario di ciò che è rimasto. Rischierei di diventare una caricatura di me stesso, patetico, ma non patetico come mi è sempre un po' piaciuto essere. Patetico nella sua connotazione più sgradevole. Patetico come sono tutti gli altri quando sono patetici. E allora meglio alzarsi e andare via, dove almeno nessuno ti può vedere, nessuno ti può chiedere come stai, se stai bene, che cos'hai. La solitudine ha una sua dignità quasi marziale. Nessuno sa come stai veramente, che cosa pensi, se piangi, se sei debole, meschino, egoista. Anzi, così da lontano sembra che tu non abbia bisogno più di niente, come se il non manifestarsi fosse una sorta di corazza che protegge dal dolore e dal tempo. E acquieta le coscienze: non mi chiama, non ha bisogno di me, e quindi vuol dire che sta bene. Ma in fondo forse è meglio così, e quando ora mi guardo allo specchio non trovo parole migliori di quelle cantate da Elliott smith, all'inizio di 'coming up roses'.

Sono uno sfasciacarrozze pieno di false partenze
E non ho bisogno del tuo permesso
Per seppellire il mio amore sotto questa lampadina spoglia

Novembre 2003, al circolo Arci Pàbitelé, a Udine.

Un anno fa, il 10 novembre 2003, mi laureavo, ma erano ben altre le priorità. 'Non penserai mica alla tua vita adesso, al tuo futuro', continuavo a ripetermi, quasi senza volere. 'No, stai tranquillo, c'è tempo, ho altre priorità adesso, te l'ho detto', mi rispondevo. Ora dico semplicemente: 'questo è solo un anno da dimenticare', citando senza pensarci una vecchia canzone di Venditti, "per sempre giovane".

Febbraio 2004, lungo la roggia che costeggia Viale Vat, a circa 500 metri da casa mia.

Per fortuna ho tanti cari amici che mi conoscono bene
e sanno sempre trovare le parole di cui ho bisogno.

fabio scrive:
domani=1 anno di cazzeggio di alessio
fabio scrive:
1 fottuto anno di vita insulsa
fabio scrive:
è l'anniversario
alessio scrive:
ah, era il 10 novembre
fabio scrive:
il 10
fabio scrive:
un traguardo
alessio scrive:
che sogno
alessio scrive:
un anno senza fare un cazzo
fabio scrive:
dopo un anno le cose si fanno pesanti amico mio...
fabio scrive:
pesanti
alessio scrive:
pesanti in che senso?
fabio scrive:
un anno senza fare niente è molto negativo
fabio scrive:
depressivo
alessio scrive:
infatti, guardami, ti sembro soddisfatto della mia vita
alessio scrive:
quest'anno puntavo almeno a donna da sposare
per poi avere la forza per cercare lavoro, ma niente
fabio scrive:
lavoro
fabio scrive:
a laburà
fabio scrive:
vado caro
fabio scrive:
buon pranzo
alessio scrive:
spero che un pezzo di cibo mi vada di traverso e mi soffochi

Luglio 2004, seduto a riflettere sugli scalini della salita al castello di Udine.

Ci sono stati sì brevi momenti vissuti con intensità, ma un anno è fatto di 365 giorni, non di tre o quattro. E la vita è un'avventura da vivere ogni giorno, non qualche attimo passando tutto il resto del tempo a prepararsi per una missione da compiere. Se dovessi esprimere un desiderio, ora, sarebbe riscoprire il piacere della quotidianità. Tante, piccole cose belle nelle giornate altrimenti grigie, ordinarie e ripetitive della nostra vita. Non evasione, nè fuga dalla realtà, ma soltanto il piacere delle cose semplici, scontate. 'Da quant'è che non usciamo per un cinema e una pizza? Ti va?'.

Settembre 2004, nella metropolitana di una grande città italiana.

Il tempo che passa inutilmente mi riporta a un bellissimo brano de 'il deserto dei tartari', di Buzzati.
Un libro meraviglioso che ho riletto quest'anno, immedesimandomi molto.

Purtroppo egli non si sente gran che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l'animo non è riuscito a invecchiare. E per quanto l'orgasmo oscuro delle ore che passano si faccia ogni giorno più grande, Drogo si ostina nella illusione che l'importante sia ancora da cominciare. Giovanni aspetta paziente la sua ora che non è mai venuta, non pensa che il futuro si è terribilmente accorciato, non è più come una volta quando il tempo avvenire gli poteva sembrare un periodo immenso, una ricchezza inesauribile che non si rischiava niente a sperperare. Eppure un giorno si è accorto che da parecchio tempo non andava più a cavalcare sulla spianata dietro alla Fortezza. Si è accorto anzi di non averne nessuna voglia e che negli ultimi mesi (chissà da quanto esattamente?) non faceva più le scale di corsa a due a due. Sciocchezze, ha pensato, fisicamente si sentiva sempre lo stesso, tutto stava a ricominciare, non c'era neppure dubbio; una prova sarebbe stata ridicolmente superflua. No, fisicamente Drogo non è peggiorato, se riprendesse a cavalcare e a correre su per le scale sarebbe benissimo capace, ma non è questo che importa. Il grave è che lui non ne sente più voglia, che lui preferisce dopo colazione starsene a sonnecchiare al sole piuttosto che scorazzare su e giù per la spianata sassosa. E' questo che conta, solo questo registra gli anni passati.
Oh, se ci avesse pensato, la prima sera che fece le scale a un gradino per volta! Si sentiva un po' stanco, è vero, aveva un cerchio alla testa e nessun desiderio della solita partita a carte (anche in precedenza del resto aveva qualche volta rinunciato a salire le scale di corsa per via di malesseri occasionali). Non gli venne il più lontano dubbio che quella sera fosse molto triste per lui, che su quei giardini, in quell'ora precisa, terminasse la sua giovinezza, che il giorno dopo, per nessuna speciale ragione, non sarebbe più ritornato al vecchio sistema, e neppure dopodomani, né più tardi, né mai.

Dopo aver letto questo passo, nei giorni seguenti salendo in mansarda facevo le scale di corsa, due gradini alla volta. Si, ci arrivavo col fiatone, ma era per sentirmi un po' più giovane. Poi, ripensando ai tanti errori commessi quest'anno, ai sensi di colpa, alle mie ingenuità, ho preso coscienza del problema, ma non l'ho risolto.

Coscienza: Non lo farai mai più, vero?
Io: No, te lo giuro.
Coscienza: Si, si, sai quante volte hai detto così, e poi basta una telefonata, un cenno, un saluto...
Io: No, no, stai tranquilla, e poi il mio oroscopo per il 2005...
Coscienza: Oh, merda, ci risiamo
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Settembre 2004, davanti alla bocca della verità.