domenica 13 marzo 2005

L’ombra e la grazia

Ci sono tante cose che un ragazzo di 18 anni desidera fare, quando riesce a ottenere la patente. A me bastava passare sotto casa di Chiara, dopo aver riaccompagnato gli amici alla fine di un sabato sera come tanti altri. Non abitava tanto distante da me, dovevo fare una deviazione di pochi chilometri ed ero già nella sua via. Una lunga curva di preparazione, un'occhiata alla sua finestra per vedere se la luce era ancora accesa, e poi scivolavo via nel buio, cantando con in sottofondo Pugni chiusi dei Ribelli.

Pugni chiusi
Non ho più speranze
In me c'è la notte più nera

Chiara, il mio primo amore platonico. O forse non era il primo, se contiamo la ragazzina con la pelliccia che veniva a catechismo con me, quando preparavamo la prima comunione. Ma a quella non avevo mai parlato, a Chiara si. Ricordo ancora il primo giorno in cui la vidi. Eravamo a casa di Giorgio, un mio amico, e avevamo organizzato una festa per conoscere delle ragazze, quasi tutte della mia scuola. Lei aveva i pantaloni marroni, una giacca a quadretti in tinta e una camicetta rosa col pizzo da bambina. Non un filo di trucco, e un ciuffo di capelli castani che ogni tanto le cadeva sugli occhi. Il suo era il sorriso, innocente e malizioso allo stesso tempo, di Sophie Marceau nel Tempo delle mele. E i miei erano gli occhi di chi si sazia con uno sguardo. Mi bastava vederla camminare, ridere, scherzare con le amiche per essere felice di essere lì, in quella stanza. Ricorderò sempre il momento in cui mi si avvicinò, come se volesse dirmi qualcosa di importantissimo: "Mi potresti mettere una canzone?". Io mi sarei tagliato di netto il pollice con un coltello da cucina lì all'istante, se me l'avesse chiesto. Risposi: "Si".




La canzone era Imagine di John Lennon, e nel successivo gioco della chiave, che consisteva nel passarsi un filo con una chiave attaccata a una estremità attraverso le maniche delle giacche e delle camicie, mi sistemai accanto a lei per adorarla meglio. Tutto durò molto poco, alla fine era rimasta solo lei insieme a me e ai miei amici Giorgio e Gabriele, gli organizzatori della festa. Riusciva a provocarci pur rimanendo essenzialmente un angelo. Una cosa che ho spesso invidiato a molte ragazze, ma che a nessuna riusciva così bene come a lei. Quando suo padre la venne a riprendere all'inizio ci rimasi male, ma avevo ancora davanti almeno quattro anni di liceo per avvicinarmi a lei. Alla fine, manco a dirlo, non ci riuscii. Potevo solo guardarla da lontano, ammirarla, sognarla, ma appena mi rivolgeva la parola rimanevo a bocca aperta e dovevo pensare qualche secondo prima di dire una banale frase di circostanza. Provavo in sua presenza una perturbazione molto simile a quella che viene definita sindrome di Stendhal.

Con la fine del liceo, scelsi di andare a studiare dove studiava lei, ovvero a Padova. Tutto il resto non era semplicemente in secondo piano. Non contava proprio nulla. Il mio primo anno di università ci vedevamo spesso, passeggiavamo, andavamo al cinema, ma ero lontanissimo da ogni proposito di conquista. La desideravo in un modo in cui non ho mai desiderato nessuno, ne sono certo. Desideravo che esistesse, nient'altro. Quell'anno finii di scrivere il libro dei miei 18 anni, che parlava della storia di me e di Chiara. Il finale era quello che avrei veramente voluto. Non ci sposavamo, non la baciavo neppure, ma scoprivo di essere veramente importante per lei, e che non ci saremmo mai allontanati, qualsiasi cosa fosse successa. Davamo un nome a una stella, che forse ce l'aveva anche già, ma da quel momento aveva un nome nostro. In quel modo ogni volta che l'avessi pensata, o avessi avuto bisogno di lei, avrei potuto guardare quella stella, la nostra stella, e siccome lei avrebbe fatto altrettanto i nostri pensieri si sarebbero incontrati lassù, e ci avrebbero fatti sentire più vicini.
Il problema però non era solo individuare quella stella tra milioni di stelle e ricordarsene. Il problema era che lei non aveva mai saputo nulla di quella stella. Decisi che le avrei dato quel libro, ma quando lo rilessi mi vergognai e lo richiusi in un pacco di cartone della Sweet Music, il mailorder che usavo per ordinare i cd all'epoca. E lì rimase per anni e anni senza che mai nessuno lo aprisse.

Il libro dei miei 18 anni



Il libro dei miei 18 anni iniziava con una citazione dall'Iperione o l'eremita in Grecia di Hölderlin, un romanzo di formazione in forma epistolare che riassumeva perfettamente il percorso che avevo fatto (o avevo pensato di fare) assieme a Chiara. Questo era pressappoco l'inizio:

"Ho veduto una sola volta l'unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l'ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera dell'umana natura e delle cose esistenti. Non vi domando più dove essa è: è esistita nel mondo e può tornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa sia, l'ho veduta, l'ho conosciuta. O voi, che cercate quanto vi è di più alto e di più perfetto, nella profondità della sapienza, nel tumulto dell'azione, nel buio del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe e al di sopra delle stelle! Conoscete il suo nome? Il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è..."

Ci pensai un po' su e poi lessi: "Bellezza". Ma in quel momento non pensavo a un concetto di bellezza astratta, o idealizzata. Pensavo a lei.

Chiara non era poi così bella, ma aveva una grazia particolare che la rendeva oggetto del desiderio per persone in apparenza diversissime. Ricordo che una delle cose che più mi colpì, quando andai la prima volta a casa sua, fu una fotografia poggiata sul mobile in salotto. C'era lei con un tutù da ballerina, poco prima del saggio di fine anno. Aveva i capelli legati, un vestitino delizioso e quel sorriso imbarazzato delle foto di circostanza. Era un bellissimo sorriso, che nonostante fosse stato immortalato sulla pellicola in una data precisa, sembrava eterno. Non aveva il fisico da ballerina di danza classica, e forse neanche le movenze. Ma io, in ogni suo movimento, vedevo una luce che non avevo mai visto in vita mia. Una scia di stelle, forse. Se penso adesso, a cosa mi ricorda, mi vengono in mente solo delle immagini che non c'entrano nulla, ma che forse rendono l'idea di cosa abbia significato per me, anche se in questo momento ha un figlio, una vita lontano da qui e non la sento più da anni.

Alphonse Mucha, La Danse, 1898



Uno dei primi cortometraggi della storia del cinema ha immortalato Annabelle Moore in un momento di quella che veniva chiamata Serpentine Dance, all'incirca nel 1894. Le tinte mutevoli del vestito dagli ampi drappeggi di Annabelle tentavano di riprodurre l'effetto dei balletti di Loie Fuller, che in quel periodo nei suoi spettacoli al Folies-Bergere affascinava artisti come Toulouse-Lautrec, Rodin e lo stesso Mucha. Lo spunto per questo nuovo tipo di danza fu casuale. Durante le prove di uno spettacolo qualcuno regalò a Loie una gonna di seta cinese trasparente, che ondeggiando dava la sensazione di un caleidoscopio di luci e di colori. Lei preparò così una danza nella quale aveva indosso quella gonna dai lunghi strascichi. Tramite bacchette nascoste tra i veli riusciva a far produrre ai suoi indumenti vari effetti luminosi: un giglio, una coppa d'oro, una grande violetta, una gigantesca farfalla...



Leni Riefenstahl, con il suo balletto mistico e sensuale di fronte al mare nel film Der Heilige Berg di Arnold Franck (1926, in italiano La Montagna dell'Amore) riuscì a far dire ad Adolf Hitler che quella era una delle cose più belle che avesse mai visto. Il personaggio femminile interpretato da Leni Riefenstahl si chiama Diotima, e durante le riprese non c'erano controfigure. Tutte le scene più pericolose (Diotima scala montagne, pratica una sorta di free climbing a piedi nudi, viene travolta da valanghe, sfida i rigori del ghiaccio a 28 gradi sotto lo zero) sono filmate direttamente senza nessun artificio.



Due immagini tratte dal manga Yokohama Kaidashi Kikou di Hitoshi Ashitano







Non so esattamente in cosa queste immagini possano ricordare la Chiara che ho in mente, io non l'ho neanche mai vista ballare. Eppure mi pare quasi di vederla, mentre entra in scena con indosso il tutù che ho ammirato in quella foto sul mobile, nel suo salotto, quando avevo 18 anni.
Se non la grazia, della ballerina aveva l'inafferrabilità di chi cerca di sfuggire, con movimenti a volte quasi impercettibili, a volte ariosi e potenti, non tanto alle leggi della gravità quanto a quelle del tempo, permettendo a chi guarda di fare altrettanto. Per questo, credo, non potrò mai ringraziarla abbastanza. Ma naturalmente non glielo dirò mai.


Lo sguardo e l'attesa sono l'attitudine che corrisponde al bello.
Fin quando si può concepire, volere, desiderare, il bello non appare.
Questa è la ragione per cui, in ogni bellezza, c'è contraddizione, amarezza, assenza irriducibili.

Simone Weil, L'ombra e la grazia, 1947

7 commenti:

  1. al ricordo di chiara, mia grande passione dei tempi che furono, dedico queste parole di Proust:
    "CERTO LA CAUSA DELLE NOSTRE PENE, INCARNATA NEL CORPO UMANO DI UN ALTRO ESSERE, QUALCHE VOLTA CI E' INCOMPRENSIBILE; I VECCHI TROIANI, VEDENDO PASSARE ELENA, SI DICEVANO :" IL NOSTRO DOLORE NON VALE UNO SOLO DEI SUOI SGUARDI ". MA FORSE E' PIU' FREQUENTE IL CONTRARIO, PERCHE' ( ALLO STESSO MODO IN CUI, INVERSAMENTE, CI SONO SEMPRE DONNE BELLE E AMMIRABILI ABBANDONATE DAL MARITO ) NON E' RARO CHE CERTI ESSERI , BRUTTI AGLI OCCHI DI QUASI TUTTI, DESTINO AMORI INESPLICABILI; GIACCHE' SI PUO DIRE ALTRETTANTO BENE DELL'AMORE QUEL CHE LEONARDO DICEVA DELLA PITTURA , CHE E' COSA MENTALE."

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  2. bellissimo post..le tue innumerevoli citazioni fanno sempre paura,sei davvero una piccola grande enciclopedia:)

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  3. ciao chiara :) in realtà volevo parlare della mia ossessione per le ballerine in queste ultime due settimane, ma alla fine ho parlato come sempre di tutt'altro, perchè mi sono ricordato della fotografia della tua omonima. l'unica foto che volevo mettere alla fine non l'ho neanche messa...
    comunque era questa:
    Un particolare di Vicky Page (Moira Shearer) tratta dal bellissimo film di Michael Powell e Emeric Pressburger The Red Shoes (1948), in cui interpreta una ballerina portata al successo dal balletto "Scarpette rosse", ispirato alla favola di Andersen.



    comunque la vera enciclopedia è google... io ci metto solo la curiosità.

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  4. ah, se poi qualcuno volesse leggere la favola di andersen, l'ho messa qui :)

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  5. sara',ma tu hai un modo tutto tuo di raccontare le cose...riusciresti a incuriosire e ad affascinare chiunque...e'sempre un piacere sognare attraverso quello che scrivi,cogliere spunti per approfondimenti tutti personali...e poi..LE BALLERINE SONO LE BALLERINE!continua pure a nutrire la tua ossessione...e'eleganza.

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  6. a proposito di ballerine......"luci della ribalta" di C.Chaplin

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