venerdì 1 luglio 2005

Say hello, wave goodbye

« Per colui che arriva, scampato da un naufragio,
e si ferma là in attesa del destino ignoto,
l'accasciamento è, talvolta, profondo in quelle solitudini.
V'è della disperazione nell'aria e, all'improvviso, vi si sente come una carezza;
passa un soffio che vi solleva. Che cos'è questo soffio?
Una nota, una parola, un sospiro, nulla. Quel nulla basta.
Chi non ha sentito, in questo mondo, la potenza di un nulla? »


(Victor Hugo, I lavoratori del mare)

Al lettore

Per te, navigatore distratto e solitario, che nel tuo naufragar nei perigliosi mari della rete per caso infrangi il tuo sguardo su questo scoglio, al quale un giorno lontano anch'io mi aggrappai per non esser trascinato via dalla furia dei venti, per te mi accingo a scrivere queste poche righe, sicché un giorno tu non debba crucciarti pel non saper fin dove il tuo viaggio inaspettato t'ha condotto.

Or non volgerti indietro, né in avanti, a rimirar se in questo lembo di pietra abbandonato vi sia qualcheduno che possa farti da guida. Solo scogli, e sassi, né anima viva tutt'intorno. Se qualcuno vi ha posato piede, è stato tanto tempo fa, e da allora tutto è rimasto, all'apparenza, intatto. Ma neanche i ricordi sono immutabili, cangiano intensità col passar delle stagioni, e anche qui il lento lavorio delle onde e delle maree, e lo spazzar dei venti, più che levigar ha frastagliato le coste, dando loro ogni giorno forme nuove, senza che alcun occhio umano ne fosse testimone.



Ma ora avvicinati, e come cerchi di dare alle nuvole in cielo l'aspetto di draghi, fortezze e templi in rovina, prova a riconoscere in questo scoglio le sue figure, come fossero i vaghi miraggi di un assetato perso nel deserto. Nulla cambia forma come le nubi, tranne le rocce, che ad ogni istante procurano il loro inganno: a volte illusione di principesche figure, di fatati castelli, oppure, al calar della notte, temuta apparizione dell'ombra terrificante e deforme di un Moloch. Ma non aver paura, nessun sacrificio ti sarà richiesto, perché nulla in questo luogo è realmente accaduto, né di felice né d'infelice. Tutto ciò che vi leggerai è come il suono di un'eco lontana, che con sé porta nel vento quei ricordi che vorresti scacciar via ma che ritornano ancora e ancora a farti visita, ogni volta un poco più addolciti dal trascorrere del tempo.



Per te, che un giorno troverai qui riparo dagli affanni della vita, queste pagine sono rimaste. Perché tu leggendole sia testimone di un soffio di vento che per qualcuno fu tempesta, senza trarre alcuna conclusione che non sia già in questa frase, scritta su una lapide posata idealmente all'ingresso di un mondo che non c'è più, e che ha avuto come unica ragion d'essere la celebrazione di un amore lontano.


Non affannarti a cercarne il segreto tra le cartine dei Baci Perugina, non lo troverai.
E ora entra pure, questi sono I Dolori del Giovane Pingu.

lunedì 14 marzo 2005

Sowing The Seeds Of Love

Marzo per me è sempre stato un mese di spostamenti, non saprei perché. Forse è solo un caso, ma è come se in questo periodo uscissi dal lungo letargo invernale e sentissi il bisogno di aprire le finestre e respirare a pieni polmoni l'aria di nuovi cambiamenti. L'anno scorso, tra febbraio e marzo, stavo facendo il primo lavoro ben retribuito della mia vita. Per un mese dovevo andare in giro per i piccoli paesini sperduti della montagna qui in Friuli a controllare com'erano stati spesi i soldi dei finanziamenti dell'Unione Europea. Detto così aveva il suo fascino, ma in realtà non ero proprio questo potente esattore temuto da tutti che andava a riscuotere le sue gabelle nelle provincie dell'Impero. Andavo semplicemente col mio registratorino portatile a casa di chiunque avesse usufruito dei finanziamenti per aprire agriturismi o cose simili e gli chiedevo di raccontarmi la sua esperienza. Non avevo mai avuto esperienze del genere, e con qualche dubbio iniziai a contattare le persone che avevo in lista. Arrivato il giorno del primo appuntamento, mentre passeggiavo in mezzo alla neve per trovare la cascina dove abitava il tizio che avevo contattato per quel pomeriggio, mi accorsi di avere la febbre alta. Riuscii a fare comunque la mia intervista, salii in macchina, raggiunsi l'autostrada, mi fermai in una piazzola di sosta e vomitai per circa 10 minuti. Poi tornai a casa guidando a 20 km all'ora, mi misi a letto con un secchio vuoto vicino dove vomitare ogni tanto e annullai tutti gli altri impegni della settimana. Non lessi in quell'influenza intestinale nessun messaggio di ostilità verso quel pur temporaneo lavoro. Ero deciso ad andare fino in fondo, anche perchè devo dire che non era poi così male...


Le settimane seguenti andarono meglio, in montagna c'erano le ultime nevicate, ma certi giorni sembrava che ci fosse già un sole primaverile. Le persone che intervistavo erano sempre molto gentili, spesso ci facevamo allegre bevute, così ad un certo punto spegnevo il registratore e ci abbandonavamo a quattro chiacchiere sulla montagna, che tutte queste persone amavano tanto da decidere di viverci, nonostante la desolazione di certi posti.
Una volta intervistai una vecchietta che gestiva un negozio di cesti di vimini, ma quel posto era pieno di ninnoli strani d'ogni tipo. Lei in realtà non aveva usufruito dei fondi stanziati, e dovevo chiederle perchè. Mi raccontò la triste storia della sua famiglia, e dei parenti cattivi che le avevano rubato l'eredità della sorella, compresi i suoi ricordi più cari. In quel caso, e non fu l'unico, feci più il consulente familiare che l'intervistatore mandato dalla Provincia di Udine, ma non mi dispiaceva affatto. Spesso tutte queste persone avevano delle cose da raccontare molto più interessanti del sapere che fine avesse fatto qualche migliaio di euro dell'Unione Europea. Anche perchè gli agriturismi, a ben vedere, non è che funzionassero proprio granchè bene. La maggior parte di chi aveva beneficiato dei fondi ne aveva approfittato per restrutturare la casa, e quella vecchina avrebbe fatto aggiustare la casa della sorella defunta, la casa che un tempo era di sua madre e nella quale era cresciuta, se quel cognato mostruoso non gliel'avesse usurpata per lasciarla abbandonata come una catapecchia qualsiasi. Le comprai una fatina verde, perchè se davvero esiste al mondo una vecchina come quella delle fiabe, è lei.



Il lavoro durò circa un mese, tra febbraio e marzo, e guidare in quei posti mi dava un'ebbrezza tutta particolare: i fiocchi di neve, andare piano per non scivolare sul ghiaccio in un burrone, il sole riflesso su quel manto bianco che quasi accecava... Insomma, dopo mesi di inattività e grigiore mi sentivo rinato, pronto a qualsiasi cosa, pronto a cambiare davvero vita. Ed ero stregato dal cd che ascoltavo sempre, durante quei viaggi. Era Piccoli fragilissimi film di Paolo Benvegnù.

Cerchi nell'acqua

Frantumare le distanze, superare resistenze
E riconoscersi per creare
Camminare senza chiedersi perchè

Il tuo viso, le mie mani
Sono la stessa gioia immensa
E' luce invisibile da succhiare
Camminare senza chiedersi perchè

E fermarsi un istante per considerare
Che il respiro è un dettaglio che ci rende uguali
Come cerchi nell'acqua che non sanno nuotare
Si infrangono

Frantumare le distanze, superare resistenze
E riconoscersi per creare
Camminare senza chiedersi perchè


E fermarsi un istante per considerare
Che ogni istante si scioglie in quello a venire
Come cerchi nell'acqua che non sanno nuotare
Si infrangono, si infrangono...


Quando finii quel lavoro e consegnai le interviste non mi sentivo di nuovo libero, perché la libertà di non avere impegni è spesso una prigione ancora peggiore dell'averne troppi. Dipendere da qualcosa o da qualcuno significava per me avere degli obiettivi che da solo non ero in grado di pormi. Allora organizzai altri viaggi, alcuni li sognai soltanto, ma in quel momento sarebbe bastato un attimo, una parola, un gesto perchè decidessi di partire e di affrontare la vita come non avevo mai fatto. Allo stesso tempo sarebbe bastato un rifiuto, una cosa non detta, un cellulare spento per bloccare sul nascere quello che ancora doveva iniziare. Non potevo fare una rivoluzione nella mia vita per me soltanto. Aspettavo una popolazione oppressa da salvare, per prendere in mano le armi, o anche un bastone trovato per terra, e combattere per il mio ideale. Quella popolazione oppressa aveva un nome e un indirizzo, e non rispose alla telefonata in cui le avrei chiesto se potevo salvarla. A volte penso che sia la stessa persona di cui parlano i Perturbazione, nel loro ultimo disco. La ascolto sempre in treno, in questo periodo.

Seconda Persona

Se sapessi quante notti
passo a ripensare a te
quanto tempo e quanto spazio invece
passano di giorno

avrei voluto, avrei potuto
e ancora non vorrei
sarà il fiato che mi manca
o forse non ne ho

a me da questa parte del telefono
a me da questa parte...

gli anni sono i tuoi capelli
un po’ più lunghi e poi tagliati
ed io li ho visti, immaginati
senza avvicinarmi mai

non so dire se desidero
per me soltanto un vuoto
o se è l’immenso desiderio
senza fine che ho di te

di te da questa parte del telefono
di te da questa parte...



Strano, è già passato un anno eppure a volte tutto mi sembra così lontano. Ora la mia macchina è stata sostituita da treni sporchi e perennemente in ritardo, e le montagne che vedo da qui non sono quelle in cui giravo nel profondo Nordest. Non credo più nelle rivoluzioni della mia vita, anche perchè ho perso per strada troppe persone.

L'ultima volta che ho creduto in qualcosa è stato due settimane fa, quando mi sono trasferito a Torino per la prima volta, con tutte le valigie. Nevicava anche lì, proprio come nel marzo dell'anno scorso, quando facevo le interviste. Avrò avuto addosso 50 chili tra vestiti, cibo e il fondamentale lettore dvd con tutta la mia raccolta di film. Non avevo ancora le chiavi del mio nuovo appartamento, e quando sono arrivato non c'era nessuno che mi potesse aprire la porta per poggiare i bagagli. Per non arrivare tardi al corso che sto frequentando, dovevo trascinarmi quel quintale di roba addosso per almeno 3 chilometri, e dopo aver camminato per 5 metri stavo già male. Mi facevo strada tra la gente barcollando come un barbone ubriaco, con lo zaino sulle spalle, una borsa a tracolla, il borsone in una mano e il lettore dvd nell'altra. Mi fermavo a rifiatare ogni minuto, ma in quelle condizioni ci avrei messo un'ora. A Torino poi i porticati sembra non finiscano mai, come le gallerie sulle alpi. Avevo percorso 300 metri dalla stazione in circa mezzora, quando mi sono fermato per prendere il telefono nella tasca del cappotto. Sudavo. Era mio papà che doveva dirmi non ricordo cosa, e così ne ho approfittato per rifiatare. Poggiate le valigie, ho alzato lo sguardo ancora confuso per lo sforzo, e ho visto questo.


Nell'istante in cui l'ho visto, mi è arrivato un messaggio di Alessia, la mia nuova compagna di appartamento, che era a casa e quindi poteva aprirmi la porta e darmi le chiavi. Ringraziai col cuore L'associazione Informazioni su Cristo per l'illuminazione e mi avviai verso la casa che mi ospiterà per qualche mese. Perchè si, pare che io a marzo non riesca proprio a stare fermo. Che poi, guarda la coincidenza, proprio poche settimane fa ho parlato con il responsabile di Slow Food Friuli, per un'opportunità di lavoro. Gli dissi che per pochi mesi mi sarei trasferito a Torino, per il corso che sto facendo, e lui fece, un po' seccato: "Eh, però ad un certo punto bisogna smettere di viaggiare e di fare gli studenti, bisogna piantare le radici da qualche parte". "Ci ho provato - avrei voluto dirgli - ma che colpa ne ho se le mie radici non attecchiscono, che colpa ne ho io se lei un anno fa non ha risposto a quella telefonata. Però, sa, ogni marzo io ci riprovo, a piantare un semino da qualche parte". Che poi c'era una canzone dei... dei Tears For Fears mi pare, che diceva...

And anything is possible when you're
Sowing the seeds of love

domenica 13 marzo 2005

L’ombra e la grazia

Ci sono tante cose che un ragazzo di 18 anni desidera fare, quando riesce a ottenere la patente. A me bastava passare sotto casa di Chiara, dopo aver riaccompagnato gli amici alla fine di un sabato sera come tanti altri. Non abitava tanto distante da me, dovevo fare una deviazione di pochi chilometri ed ero già nella sua via. Una lunga curva di preparazione, un'occhiata alla sua finestra per vedere se la luce era ancora accesa, e poi scivolavo via nel buio, cantando con in sottofondo Pugni chiusi dei Ribelli.

Pugni chiusi
Non ho più speranze
In me c'è la notte più nera

Chiara, il mio primo amore platonico. O forse non era il primo, se contiamo la ragazzina con la pelliccia che veniva a catechismo con me, quando preparavamo la prima comunione. Ma a quella non avevo mai parlato, a Chiara si. Ricordo ancora il primo giorno in cui la vidi. Eravamo a casa di Giorgio, un mio amico, e avevamo organizzato una festa per conoscere delle ragazze, quasi tutte della mia scuola. Lei aveva i pantaloni marroni, una giacca a quadretti in tinta e una camicetta rosa col pizzo da bambina. Non un filo di trucco, e un ciuffo di capelli castani che ogni tanto le cadeva sugli occhi. Il suo era il sorriso, innocente e malizioso allo stesso tempo, di Sophie Marceau nel Tempo delle mele. E i miei erano gli occhi di chi si sazia con uno sguardo. Mi bastava vederla camminare, ridere, scherzare con le amiche per essere felice di essere lì, in quella stanza. Ricorderò sempre il momento in cui mi si avvicinò, come se volesse dirmi qualcosa di importantissimo: "Mi potresti mettere una canzone?". Io mi sarei tagliato di netto il pollice con un coltello da cucina lì all'istante, se me l'avesse chiesto. Risposi: "Si".




La canzone era Imagine di John Lennon, e nel successivo gioco della chiave, che consisteva nel passarsi un filo con una chiave attaccata a una estremità attraverso le maniche delle giacche e delle camicie, mi sistemai accanto a lei per adorarla meglio. Tutto durò molto poco, alla fine era rimasta solo lei insieme a me e ai miei amici Giorgio e Gabriele, gli organizzatori della festa. Riusciva a provocarci pur rimanendo essenzialmente un angelo. Una cosa che ho spesso invidiato a molte ragazze, ma che a nessuna riusciva così bene come a lei. Quando suo padre la venne a riprendere all'inizio ci rimasi male, ma avevo ancora davanti almeno quattro anni di liceo per avvicinarmi a lei. Alla fine, manco a dirlo, non ci riuscii. Potevo solo guardarla da lontano, ammirarla, sognarla, ma appena mi rivolgeva la parola rimanevo a bocca aperta e dovevo pensare qualche secondo prima di dire una banale frase di circostanza. Provavo in sua presenza una perturbazione molto simile a quella che viene definita sindrome di Stendhal.

Con la fine del liceo, scelsi di andare a studiare dove studiava lei, ovvero a Padova. Tutto il resto non era semplicemente in secondo piano. Non contava proprio nulla. Il mio primo anno di università ci vedevamo spesso, passeggiavamo, andavamo al cinema, ma ero lontanissimo da ogni proposito di conquista. La desideravo in un modo in cui non ho mai desiderato nessuno, ne sono certo. Desideravo che esistesse, nient'altro. Quell'anno finii di scrivere il libro dei miei 18 anni, che parlava della storia di me e di Chiara. Il finale era quello che avrei veramente voluto. Non ci sposavamo, non la baciavo neppure, ma scoprivo di essere veramente importante per lei, e che non ci saremmo mai allontanati, qualsiasi cosa fosse successa. Davamo un nome a una stella, che forse ce l'aveva anche già, ma da quel momento aveva un nome nostro. In quel modo ogni volta che l'avessi pensata, o avessi avuto bisogno di lei, avrei potuto guardare quella stella, la nostra stella, e siccome lei avrebbe fatto altrettanto i nostri pensieri si sarebbero incontrati lassù, e ci avrebbero fatti sentire più vicini.
Il problema però non era solo individuare quella stella tra milioni di stelle e ricordarsene. Il problema era che lei non aveva mai saputo nulla di quella stella. Decisi che le avrei dato quel libro, ma quando lo rilessi mi vergognai e lo richiusi in un pacco di cartone della Sweet Music, il mailorder che usavo per ordinare i cd all'epoca. E lì rimase per anni e anni senza che mai nessuno lo aprisse.

Il libro dei miei 18 anni



Il libro dei miei 18 anni iniziava con una citazione dall'Iperione o l'eremita in Grecia di Hölderlin, un romanzo di formazione in forma epistolare che riassumeva perfettamente il percorso che avevo fatto (o avevo pensato di fare) assieme a Chiara. Questo era pressappoco l'inizio:

"Ho veduto una sola volta l'unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l'ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera dell'umana natura e delle cose esistenti. Non vi domando più dove essa è: è esistita nel mondo e può tornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa sia, l'ho veduta, l'ho conosciuta. O voi, che cercate quanto vi è di più alto e di più perfetto, nella profondità della sapienza, nel tumulto dell'azione, nel buio del passato, nel labirinto del futuro, nelle tombe e al di sopra delle stelle! Conoscete il suo nome? Il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è..."

Ci pensai un po' su e poi lessi: "Bellezza". Ma in quel momento non pensavo a un concetto di bellezza astratta, o idealizzata. Pensavo a lei.

Chiara non era poi così bella, ma aveva una grazia particolare che la rendeva oggetto del desiderio per persone in apparenza diversissime. Ricordo che una delle cose che più mi colpì, quando andai la prima volta a casa sua, fu una fotografia poggiata sul mobile in salotto. C'era lei con un tutù da ballerina, poco prima del saggio di fine anno. Aveva i capelli legati, un vestitino delizioso e quel sorriso imbarazzato delle foto di circostanza. Era un bellissimo sorriso, che nonostante fosse stato immortalato sulla pellicola in una data precisa, sembrava eterno. Non aveva il fisico da ballerina di danza classica, e forse neanche le movenze. Ma io, in ogni suo movimento, vedevo una luce che non avevo mai visto in vita mia. Una scia di stelle, forse. Se penso adesso, a cosa mi ricorda, mi vengono in mente solo delle immagini che non c'entrano nulla, ma che forse rendono l'idea di cosa abbia significato per me, anche se in questo momento ha un figlio, una vita lontano da qui e non la sento più da anni.

Alphonse Mucha, La Danse, 1898



Uno dei primi cortometraggi della storia del cinema ha immortalato Annabelle Moore in un momento di quella che veniva chiamata Serpentine Dance, all'incirca nel 1894. Le tinte mutevoli del vestito dagli ampi drappeggi di Annabelle tentavano di riprodurre l'effetto dei balletti di Loie Fuller, che in quel periodo nei suoi spettacoli al Folies-Bergere affascinava artisti come Toulouse-Lautrec, Rodin e lo stesso Mucha. Lo spunto per questo nuovo tipo di danza fu casuale. Durante le prove di uno spettacolo qualcuno regalò a Loie una gonna di seta cinese trasparente, che ondeggiando dava la sensazione di un caleidoscopio di luci e di colori. Lei preparò così una danza nella quale aveva indosso quella gonna dai lunghi strascichi. Tramite bacchette nascoste tra i veli riusciva a far produrre ai suoi indumenti vari effetti luminosi: un giglio, una coppa d'oro, una grande violetta, una gigantesca farfalla...



Leni Riefenstahl, con il suo balletto mistico e sensuale di fronte al mare nel film Der Heilige Berg di Arnold Franck (1926, in italiano La Montagna dell'Amore) riuscì a far dire ad Adolf Hitler che quella era una delle cose più belle che avesse mai visto. Il personaggio femminile interpretato da Leni Riefenstahl si chiama Diotima, e durante le riprese non c'erano controfigure. Tutte le scene più pericolose (Diotima scala montagne, pratica una sorta di free climbing a piedi nudi, viene travolta da valanghe, sfida i rigori del ghiaccio a 28 gradi sotto lo zero) sono filmate direttamente senza nessun artificio.



Due immagini tratte dal manga Yokohama Kaidashi Kikou di Hitoshi Ashitano







Non so esattamente in cosa queste immagini possano ricordare la Chiara che ho in mente, io non l'ho neanche mai vista ballare. Eppure mi pare quasi di vederla, mentre entra in scena con indosso il tutù che ho ammirato in quella foto sul mobile, nel suo salotto, quando avevo 18 anni.
Se non la grazia, della ballerina aveva l'inafferrabilità di chi cerca di sfuggire, con movimenti a volte quasi impercettibili, a volte ariosi e potenti, non tanto alle leggi della gravità quanto a quelle del tempo, permettendo a chi guarda di fare altrettanto. Per questo, credo, non potrò mai ringraziarla abbastanza. Ma naturalmente non glielo dirò mai.


Lo sguardo e l'attesa sono l'attitudine che corrisponde al bello.
Fin quando si può concepire, volere, desiderare, il bello non appare.
Questa è la ragione per cui, in ogni bellezza, c'è contraddizione, amarezza, assenza irriducibili.

Simone Weil, L'ombra e la grazia, 1947

mercoledì 2 marzo 2005

Alla ricerca di sé

Suono il campanello e mi risponde una voce familiare: "Sali!". Mentre salgo le cinque, lunghe rampe di scale mi manca il fiato. Giunto sull'uscio, mentre aspetto ansimante che qualcuno apra la porta, mi sento straniero in terra straniera, un povero viandante che porta con sé solo quel poco che gli basta, insieme a tutto quello che conserva dentro: i ricordi dei viaggi passati, un bagaglio di speranze e delusioni che per gli altri non sono altro che valigie vuote, non servono a nulla. E mentre entro, penso a quella frase di Kafka, che avevo letto tanto tempo fa:

Ogni uomo porta in se stesso una camera.
È un fatto di cui il nostro stesso udito ci dà conferma.
Quando si cammina in fretta e si tende l'orecchio, specie di notte,
quando intorno a noi tutto è silenzio, si ode, ad esempio,
il tintinnio di uno specchio a muro non fissato bene.

Franz Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni e diari, Mondadori, p. 694

La porta si apre e il calore di una stanza viva mi invade, fiaccando ancora di più le mie residue forze. Poggio lo zaino, bevo un bicchiere d'acqua in piedi. Dico qualcosa per educazione, ma sono concentrato soltanto a cercare di regolarizzare il respiro. Conto: uno, due, tre. Uno, due, tre. Ecco, ora comincio a ragionare. E siccome l'ospite deve ristorarsi dopo il lungo viaggio, mangio e bevo un po’ di vino. Dopo cena, sorseggiando un caffè, il mio interlocutore si avventura in una discussione stimolante: i sogni. Ad un tratto si sente un rumore, un tintinnio, ma non si capisce bene da dove venga. "Saranno i vicini, o forse è caduto qualcosa nella stanza di là", dice lui. La conversazione riprende nel dubbio, ma io invece so cos'era. Doveva essere caduto qualcosa nella stanza che mi porto sempre appresso. Dentro di me, ogni giorno, mentre cammino. Forse un colpo di vento, forse un gatto. Allora sono entrato un attimo dentro a vedere cosa poteva essere successo...

La mia camera, nel luglio del 2003.



Pingu: Buongiorno dottore.

LDZ: Buongiorno, buongiorno, si sieda. Benissimo, vediamo, oggi vorrei che continuassimo a parlare dell'argomento di cui mi ha solo accennato alla fine della scorsa seduta, non so se ricorda...

Pingu: La mia ossessione per il dente rotto?

LDZ: Bravo, si, intendevo proprio quello. Era venuta fuori un'interessante correlazione tra questa sua, come ha detto, ossessione per il dente che si era scheggiato poco tempo fa e le insicurezze che l'avevano accompagnata fin da piccolo. Provi a raccontarmi qualcosa con le sue parole. Non si preoccupi, tengo acceso il registratore solo per prendere qualche appunto. Lo ascolteremo solo io e la dottoressa Amato, che poi sbobinerà il nastro.

Pingu: Dunque, le dicevo che poco prima della laurea mi scheggiai un dente mangiandomi le unghie, uno dei due davanti. Vede? Proprio questo. Lì per lì mi preoccupai e presi appuntamento con la mia dentista, che mi propose di ricostruirlo con una specie di gelatina applicata sul dente che poi si solidifica, e in un'ora fece il lavoro. Purtroppo durò solo pochi giorni, e il dente si ruppe ancora nello stesso punto. La dottoressa mi disse che ogni ricostruzione era inutile per una mia tendenza a digrignare i denti di notte, mentre dormo. L'ha chiamata...

LDZ: Bruxismo?

Pingu: Si, esattamente. Io non le dissi che mi si era spezzato tutte e due le volte mentre mi mangiavo le unghie. Evidentemente la colla usata non teneva abbastanza, almeno finchè non avessi smesso di mangiarmele. La dottoressa mi propose o un apparecchio da mettere ogni sera mentre dormivo o di farmi rivestire il dente di porcellana, dopo averlo limato. Rifiutai la prima ipotesi dicendole che non l'avrei mai messo, quell'apparecchio. Oppure a quel punto avrei dovuto tenerlo tutto il giorno, per evitare di mangiarmi le unghie quando ero nervoso. Rifiutai anche la seconda ipotesi, per l'alto costo e perchè l'idea di far limare un dente sano mi faceva venire i brividi. Così tenni quel piccolo difetto, che come vede ho ancora, ma lo scenario descritto dalla mia dentista di me che digrignavo i denti la notte mi causava non poche ansie. Appena sveglio, la mattina, toccavo il dente con la lingua ancora in dormiveglia, per accertarmi che non si fosse scheggiato ancor di più. Di giorno poi appena incrociavo uno specchio mi fermavo a guardare il dente, per scrutare ogni più piccola differenza dalla volta precedente. E il fatto di non notare nulla di diverso non bastava a tranquillizzarmi, anzi.

LDZ: Hai mai sognato di rompersi i denti, in quel periodo?

Pingu: Certo, moltissime volte. Non sono ancora convinto di digrignare i denti di notte, ma se mai ho iniziato a farlo è stato dopo quei fatti.

LDZ: Ma cosa le dava più fastidio, del suo dente rotto?

Pingu: Beh, a parte sentire qualcosa di appuntito sotto la lingua ogni volta che lo sfioravo, nulla. Certo, rimaneva il disagio di farmi vedere col dente rotto in pubblico, naturalmente.

LDZ: Ritiene che sia un difetto così rilevante agli occhi degli altri?

Pingu: Ma, ora molto meno, ma allora mi sembrava di si. Cercavo di aprire poco la bocca, per non farlo notare, ma non sempre era facile, anzi, attiravo ancora di più l'attenzione, credo.

LDZ: Le è mai capitato qualche episodio spiacevole per colpa di quel dente?

Pingu: No, direi di no. In parte mi ricorda un episodio della mia infanzia, quando soffrivo molto per un neo che avevo sotto l'occhio. Alle elementari no, ma alle medie spesso i compagni mi prendevano in giro per quel neo, e io odiavo quel mio segno di diversità. Volevo non avere difetti per essere come tutti gli altri, anche se chiunque ha dei difetti, in fondo. Ma allora stavo male perchè esteriormente mi sentivo diverso, seppur in un solo piccolo e insignificante particolare.

LDZ: E come affrontò la cosa?

Pingu: Beh, dovetti insistere con i miei genitori per farmelo togliere, dopo gli esami di terza media, così avrei iniziato le superiori con dei nuovi compagni che non potevano sapere nulla. Fu una cosa breve e indolore, mi è rimasto ancora il segno. Una piccola cicatrice, qui, proprio sotto l'occhio.

LDZ: E dopo cambiò qualcosa?

Pingu: Non più di tanto...

Il mio dente rotto

LDZ: Ora le spiego brevemente una cosa. Freud sosteneva che lo sviluppo psicosessuale del bambino avviene attraverso varie fasi. Il primo stadio, quello orale, è contraddistinto da uno stato d’immaturità e di totale dipendenza del neonato che vive ancora in simbiosi con la madre. Un soggetto, in un particolare periodo della sua vita, qualora si trovi di fronte a un ostacolo che non riesce per qualche motivo a superare, per reazione può in parte regredire alle fasi dello sviluppo sessuale precedenti. Ciò può causare dei conflitti che rischiano di generare patologie più gravi quali nevrosi, psicosi, fino alla follia vera e propria. Le faccio questo discorso perchè questa sua ossessione per i denti, questa sua insicurezza nel guardarsi la bocca allo specchio, mostra secondo me evidenti aspetti orali che spesso si riscontrano anche nei pazienti depressi. E lei, da quanto mi ha detto, ha sofferto di depressione negli ultimi anni, vero?

Pingu: Si, più o meno in questo stesso periodo, l’anno passato, per via di quella ragazza di cui le ho parlato la prima volta, ricorda?

LDZ: Si, certo. Come si ricorderà, nella nostra prima seduta mi ha detto che durante il periodo passato con quella ragazza, quando Lei era depresso era tuttavia instancabile nella sua ricerca d’amore. Si nutriva dell’oggetto del suo amore, e la sua stima di sé dipendeva unicamente o quasi dalla relazione con quell’oggetto. Di fronte al fallimento di quel rapporto è sprofondato nella melanconia senza riuscire a elaborare la perdita dell’oggetto e il lutto che ne consegue. E in questo caso la coincidenza temporale tra il declino della sua relazione e l'ossessione per il dente rotto non può passare inosservato...

Pingu: Si, forse ha ragione... Ma senta, il mancato superamento o la regressione alla fase orale può comportare anche disturbi di tipo... sessuale?

LDZ: In certi casi sicuramente, ma se fossi in lei non mi preoccuperei troppo di questo. E non si preoccupi se ha manifestato una preferenza verso il sesso orale attivo o passivo (sorride), le assicuro che è una cosa molto diffusa e non è affatto una patologia...

LDZ: Il problema nel suo caso è un'altro. Kierkegaard diceva che una giovane donna che perde il fidanzato, se si dispera, non prova dolore per il fidanzato perduto, ma per il Sé-senza-fidanzato. È il senso di fallimento personale, di impotenza e di inutilità che fa disperare, più dell’abbandono in sé. E, nel suo caso, prolungare psichicamente l'esistenza della donna che ha perduto tramite ricordi e aspettative un tempo legate a lei rende molto più difficile il distacco. Può anche darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore, no? Come diceva Freud, als Liebesobjekt...

Pingu: Già, als Liebesobjekt... Quindi secondo lei farei bene a chiamarla, senza però pensarla più come oggetto d'amore?

LDZ: Non vorrei che prendesse le mie parole come i consigli letti in una rubrica di cuori solitari, non è questo il punto. Prima di chiamarla dovrebbe aver ben chiaro che la sua autostima non può essere legata soltanto a una persona che ha conosciuto poco più di un anno fa, tutto qui. E che lei non è un uomo peggiore di com'era prima di averla incontrata, anzi.

Pingu: Si dottore, io credo di essere pronto per un passaggio del genere. Tra l'altro, non so se può esserci un legame tra le due cose, ma ho anche smesso di mangiarmi le unghie. Ora che il dente rotto è diventato più affilato mi facevo anche un po' male alle dita, e così ho smesso.

LDZ: Un buon inizio, direi che è un buon inizio...

Un acquarello di Karin boye intitolato Liv och död

Tutto a un tratto torno in me come svegliato all'improvviso da un sogno. Sono seduto sul divano che dovrò presto trasformare nel mio giaciglio per questa notte. La bottiglia di vino è finita da un pezzo, ma è ancora presto per andare a dormire. C'è tempo per vedere un film che avevo portato con me nello zaino. Infilo il dvd nel lettore, chiudo le luci e, stanco e un po' assopito, mi immergo nelle immagini che scorrono sullo schermo.

Marlin: Io devo trovare quella barca!
Dory: Una barca? Io l'ho vista una barca.
Marlin: L'hai vista?
Dory: Aha, è passata di qui un attimo fa.
Marlin: Era bianca?
Dory: Ciao. Sono Dory.
Marlin: Dove? Dove?
Dory: Oh, oh, oh. È andata...di là. È andata da quella parte. Seguimi!
Marlin: Grazie, grazie, mille volte grazie.
Dory: Figurati.


Marlin: Hey, aspetta!
Dory: Vuoi piantarla?
Marlin: Cosa?
Dory: Sto nuotando. L'oceano non è abbastanza grande per te?
Marlin: Eh?
Dory: Hai qualche problema, amico? Eh? Eh? Allora? Allora? Allora?
Ce l'hai con me? Si, si, oh, adesso si che ho paura.
Allora? Piantala di seguirmi, capito?
Marlin: Ma di che cosa stai parlando, mi facevi vedere dov'era andata la barca.
Dory: Una barca? Hey, io l'ho vista una barca, è passata di qui un attimo fa.
È andata... di là. È andata da quella parte. Seguimi!
Marlin: Un momento, aspetta un momento. Che cosa stai facendo,
me l'hai già detto da che parte è andata la barca.
Dory: Già detto? Oh, no...

Dory: Mi dispiace tanto, ma io soffro di perdite di memoria a breve termine.
Marlin: Perdite di memoria a breve termine? Non ci posso credere.
Dory: No, è vero! Dimentico le cose all'istante. Tutti così in famiglia.
Beh, insomma almeno credo che tutti... Ah... Che fine hanno fatto...
Posso aiutarla?
Marlin: Tu hai qualcosa che non va, davvero. Mi fai solo perdere tempo.


Dory: Hey, piccoletta! La chiamerò giuggiola
e la terrò sempre con me, sarà la mia piccola giuggiola.
Marlin: Attenta Dory, quella è una medusa!
Dory: Cattiva Giuggy! Sei cattiva Giuggy... Non toccarmi, non toccarmi!
Marlin: Non voglio toccare, voglio solo guardare.
Dory: Hey, come mai te non ti ha punto?
Marlin: Mi ha punto, solo che...
Dory: Ahi, ahi, ahi!
Marlin: Ferma! Io abito dentro un anemone, sono abituato a queste punture.
Dory: Ahi, ahi, ahi!
Marlin: Ferma! Non mi sembra grave, passerà presto.
Però d'ora in poi lo sappiamo. Non dobbiamo toccarle mai più.
Meno male che si trattava di una medusa piccola.

Dory: Fermati! Non te ne andare. Ti prego. Nessuno finora è mai rimasto così a lungo con me.
E se tu te ne vai, se tu te ne vai... Con te io mi ricordo le cose, è vero!
Stà a sentire: Fisherman 42... Uh, 42... Ah, me lo ricordo! Lo giuro, è qui!
Perchè quando ti vedo... Me lo sento, quando ti vedo io... mi sento a casa.
Ti prego, non voglio perdere tutto questo. Non voglio dimenticare.
Marlin: Mi dispiace Dory, ma io... Si.


martedì 22 febbraio 2005

La fioreria sotto casa

Fuori è tutto bianco. Prima sono uscito sul terrazzo di corsa, a piedi nudi e in tuta da ginnastica, perchè sembrava che ci fosse una nebbia fittissima e invece era neve. Quando sono rientrato, con tutta la testa bagnata, per riscaldarmi sono sceso di sotto a prepararmi un bicchiere di Nescafè relax. Mentre lo sorseggiavo, per distrarmi ho preso un libro dallo scaffale, l'ho aperto e alla prima pagina ho letto:

Cavalcare, cavalcare, cavalcare, attraverso il giorno, attraverso la notte, attraverso il giorno.
Cavalcare, cavalcare, cavalcare.


L'animo si è fatto così stanco e la nostalgia così grande. Non si vedono più monti, a malapena un albero. Nulla che osi levarsi. Capanne sconosciute siedono assetate accanto a fonti paludose. Non una torre. E sempre lo stesso scenario. Si hanno due occhi di troppo. Solo la notte si crede talvolta di conoscere la via. Forse di notte ripercorriamo a ritroso quello stesso tratto conquistato con pena sotto un sole straniero? Può essere. Il sole è opprimente, come da noi al colmo dell'estate. Ma in estate partimmo. Gli abiti delle donne splendettero a lungo sul verde. E cavalchiamo ormai da gran tempo. Deve dunque essere autunno. Almeno là dove donne tristi sanno di noi.

(da Il canto d'amore e morte dell'alfiere Christoph Rilke di Rainer Maria Rilke)

Il mio giardino, stanotte.



Pensa un po', Rilke aveva solo 18 anni quando si innamorò di Valerie von David-Rohnfeld. In due anni, prima della rottura definitiva di quel rapporto, le scrisse circa 130 tra lettere e poesie, poi andate perdute. Chissà, magari Valerie è scomparsa portandosi dietro quel malloppo di carta, e i biografi di Rilke hanno perso le tracce di lei e di quel tesoro di lettere d'amore. Ma potrebbe anche averle messe in uno scatolone finito chissà dove durante un trasloco, o averle sacrificate sull'altare dell'amore di un marito troppo geloso...

Invece chissà che fine avranno fatto o faranno le mie, di lettere d'amore. Serviranno a ricostruire il complesso quadro della mia poetica? Qualche sognatrice adolescente le leggerà in un mio epistolario pubblicato postumo, o magari le riceverà dalle mani di qualche ragazzino innamorato che tramite le mie parole cerca di aprirsi una strada verso il suo primo "ti amo"? Più probabilmente verranno abbandonate in qualche armadio o - peggio ancora! - in qualche soffitta a far compagnia ai vecchi quaderni di scuola. In ogni caso il desiderio di perpetrare il nostro ricordo in chi amiamo con la parola scritta è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. Molto meglio i pupazzi, del resto non ne venderebbero così tanti se non fosse così.

L'orsetto severo che ancora veglia su una persona a me cara.



Stasera avrei un po' di cose da sbrigare, dovrei per prima cosa mettere ordine nel caos della mia scrivania, ma il dolce tepore delle due candele al quarzo della stufetta elettrica ha già raggiunto la mia schiena, ed è ormai troppo tardi per reagire. Mi piace l'inverno, perchè al troppo freddo puoi reagire con il troppo caldo. Non potrei mai fare il bagno-sauna che mi piace tanto, se ci fosse un'estate perenne. E non potrei nemmeno ustionarmi la schiena come sto facendo ora. Poi dopo l'operazione agli occhi non ho neanche più gli occhiali appannati quando entro nei locali, cos'altro potrei chiedere ad un freddo inverno come questo. Però, se ci penso bene, uno degli inverni più belli che ricordi è stato quello del 2001...

La mia stufetta elettrica.



Nel gennaio del 2001 ero agli sgoccioli della mia carriera universitaria di studente fuori sede a Trieste. Abitavo insieme al mio caro amico Luca in una mansardina di legno, tanto per sentirmi più a casa. Non andavo alle lezioni, era l'ultimo anno in cui avevo dei corsi da seguire, e non avendo frequentato i primi quattro non mi sembrava proprio il caso di iniziare al quinto. Così mi svegliavo tardi, pranzavo e passavo le giornate a leggere, a bighellonare per le strade e ad ubriacarmi, la sera. La vita scorreva tutto sommato tranquilla, ma avendo molto tempo libero pensai di trovarmi un'occupazione, un lavoretto.
Dando una sbirciatina agli annunci sul giornale, trovai proprio quello che faceva al caso mio: procacciatore di contratti telefonici. Sapeva molto di venditore porta a porta, ma aveva come garanzia l'altisonante marchio di Infostrada, che allora riempiva strade, televisioni e giornali di pubblicità. Pensai di iniziare la mia scalata verso i vertici dell'azienda dal basso, come ogni buon manuale del self made man insegna, e mi presentai al colloquio con la mia valigetta blu (vuota), prezioso dono di un corso Ial per DJ radiofonico che avevo fatto due anni prima. Mi ero fatto fissare il colloquio alle sei del pomeriggio, perchè prima di quell'ora difficilmente avevo un'aria sveglia. Per impegni di studio, dissi. Appena entrato nell'ufficio del direttore, la prima cosa che notai furono le foto dei suoi figli sulla scrivania. Dev'essere un buon padre di famiglia, non potrebbe essere altrimenti. Si occuperà di me come un figlio fin quando spiccherò il volo verso altri lidi senza la minima riconoscenza spinto da un'ambizione senza freni, pensavo. Una stretta di mano, poi una rapida spiegazione del lavoro: dovevo vendere contratti telefonici a privati e ad aziende, e passare ogni mese a consegnarli per riscuotere la provvigione dovuta. Semplice e chiaro. Ogni contratto aziendale valeva per me all'incirca 50.000 lire dell'epoca, niente male. Mentre uscivo con la pila di contratti sottomano, già contavo mentalmente i primi guadagni: nuovo contratto Infostrada per casa mia, per la nonna, per il lontano cugino della mamma, per i vicini di casa...


Messaggi subliminali che i miei genitori mi lasciano sulle scale, ogni tanto.





A casa ne avevo parlato distrattamente, del mio nuovo lavoro. Ma ben presto dovetti incassare il primo vero duro colpo nella mia vita lavorativa da poco iniziata. Una mattina, pochi giorni dopo, vidi tornare a casa mio papà tutto contento.

"Sai Ale, oggi è passato in ufficio un tizio dell'Infostrada,
mi ha fatto vedere tutte le nuove tariffe e mi sembravano vantaggiose,
ha detto che non si paga niente per sottoscrivere il contratto e così l'ho firmato."

"Ah... Mi fai vedere quel contratto un attimo?"

"Si, eccolo qua".

Era esattamente come quelli che avevo io, e il mio primo cliente (e le prime 50.000 lire) mi era sfumato davanti agli occhi con un così feroce, pur se inconsapevole, tradimento in famiglia. Lì per lì non dissi niente, anche per non fare la figura del cretino, e continuai a seguire i miei programmi come se niente fosse. Quando anche mia nonna disse che non le serviva nessun nuovo contratto telefonico (si sa, gli anziani sono sempre restii ai cambiamenti) decisi che non era il caso di fare affari in famiglia: troppe complicazioni, troppi conflitti d'interesse. Molto meglio rivolgermi alle aziende, peraltro più redditizie. Così spesi giorni e giorni a riflettere su quale fosse il mio target potenziale. Sfogliavo le pagine gialle, mentre camminavo per le strade scrutavo ogni targa fuori dai palazzi, sempre alla ricerca del cliente perfetto, quello che non avrebbe mai potuto dirmi di no. E così un'intera rete di appuntamenti da fissare prendeva corpo nella mia mente. Era tutto pronto, bastava solo decidere quando passare all'azione e concretizzare quel lungo lavoro di monitoraggio.

Una significativa immagine tratta dal film Donnie Darko.


Durante la settimana ero un semplice studente fuori sede, perciò ero a Udine solo dal venerdì sera alla domenica e non potevo certo prendere appuntamento con qualche azienda. Dirottai così ben presto le mie attenzioni su Trieste, anche perchè di tempo ne avevo in abbondanza. Ma non conoscendo bene la realtà del luogo, mi muovevo con più circospezione. Forse c'erano anche altre aziende telefoniche che operavano da quelle parti, oppure altri procacciatori di contratti di Infostrada ai quali avrei pestato i piedi nel loro territorio. Già immaginavo minacce, tangenti, estorsioni, violenze psicologiche d'ogni tipo... Decisi allora di tastare il terreno partendo da un bersaglio il più possibile innocuo. La scelta, dopo lunghi pomeriggi di riflessione, cadde su un obiettivo apparentemente banale, il classico caso in cui dici "ma come ho fatto a non pensarci prima?". Era la fioraia sotto casa.

La Regina delle nevi disegnata da Lev Atamanov per l'omonimo cartone animato, nel 1957.



Faceva molto freddo quell'anno e uscivo malvolentieri senza aver bevuto qualche bicchiere di vino, dopo un buon pasto preparato da Luca a base di salame con l'aceto e frico con patate e cipolla. Ma dovevo affrettare i tempi, erano passate due settimane e non avevo stipulato ancora nessun contratto, mentre l'obiettivo che mi ero prefissato era di almeno 10 contratti nel primo mese. Così uscivo di casa tutto imbacuccato col cappotto lungo nero e la sciarpa che mi copriva quasi interamente il volto, e ogni volta guardavo di sfuggita dentro la fioreria per studiare un piano d'azione. Non potevo fermarmi troppo davanti alla vetrina per non dare nell'occhio, altrimenti la fioraia mi avrebbe riconosciuto quando le avrei proposto un contratto. Così mi appostavo dietro a un lampione, fingendo di aspettare un autobus, oppure lanciavo un'occhiata furtiva all'interno, passandoci davanti con aria distratta. Lei era probabilmente una zitella acida e rancorosa, pronta a sbattermi fuori dal negozio con qualche frase incomprensibile al solo sentir pronunciare la parola 'contratto'. C'era poi un'altra considerazione da fare: dovendo entrare durante l'orario di apertura del negozio, rischiavo di trovare qualche cliente, col conseguente problema di risultare di impaccio per il suo lavoro. Quindi dovevo entrare solo qualora il negozio fosse stato vuoto, meglio se in orari di bassa affluenza, perchè non si sa mai che arrivi qualcuno a mandarmi all'aria tutti i piani, mentre le sto illustrando i vantaggi delle tariffe Infostrada. L'idea definitiva era di andarci appena apriva dopo pranzo, verso le tre. Prendevo i contratti, scendevo le scale, davo una rapida occhiata per vedere se c'era qualcuno e poi entravo: "Buongiorno signora, ha mai sentito parlare delle offerte Infostrada?", "Buondì, sono Alessio Giacomini di Infostrada, vorrei illustrarle...". Ma forse sarebbe stato meglio telefonare prima per un appuntamento, era più professionale. Avendola proprio sotto casa però mi sembrava ridicolo telefonarle. E se poi un giorno mi vedeva uscire dalla porta del palazzo proprio sopra la sua fioreria, che figura ci facevo? Al massimo potevo entrare direttamente nel negozio e, se era indaffarata, potevo chiederle se preferiva che tornassi lì in un altro momento, quando le andava meglio. Si, era deciso, avrei fatto così.

Io e la regina delle nevi.




I giorni passarono, freddi e brevi. Dopo pranzo, al momento del caffè, c'era sempre una piccola pausa nei miei pensieri dedicata ai contratti Infostrada e alla fioreria sotto casa. Mi domandavo: oggi è il giorno giusto? Ma poi o dovevo andare al bagno, o ero raffreddato, o avevo mal di testa perchè la sera prima avevo bevuto troppo, sembrava proprio che il momento giusto non arrivasse mai. Passarono così 25 giorni, da quando mi avevano consegnato i contratti. Ed erano ancora tutti lì, intonsi, sul comodino di fianco al letto. Le tariffe le conoscevo, anche se rimanevano dei punti oscuri riguardanti l'opzione Canonezero. Alla fatidica domanda "ma da quando potrò smettere di pagare il canone alla Telecom?", non avrei potuto opporre che una pallida argomentazione: "Dipende dai tempi tecnici che occorreranno all'azienda per creare le infrastrutture necessarie". Ma in fondo avrei anche potuto inventarmi una balla in grande stile, tanto poi chi mi vede più: "Da giugno. Ancora qualche mese e finalmente quei ladri non vedranno più il becco d'un quattrino da lei, cara signora". Ormai però avevo tirato troppo la corda, e temevo da un momento all'altro la telefonata in cui mi avrebbero chiesto che fine avessi fatto e quanti contratti firmati avrei portato. Appena ricevevo una chiamata al cellulare da numeri sconosciuti, cominciavo a preoccuparmi. Non rispondevo, e poi controllavo sull'elenco online di chi fosse quel numero. Ma pareva proprio che si fossero dimenticati di me, o forse semplicemente mi aspettavano con impazienza nei loro uffici, pronti a redarguirmi per il ritardo.

Un'immagine tratta dal film Nerds.



In quel periodo, poi, conobbi Giulia. Ci sentivamo quasi ogni giorno per telefono, e piano piano cominciò a riempire le mie stanche giornate. Ripulì ben presto la mia vita dalla polvere che in tanti mesi di solitudine vi si era accumulata dentro, e l'odore stantio della noia intorno a me scomparve in un baleno. Ormai febbraio volgeva a marzo e le giornate più calde erano un'avvisaglia della primavera che col suo pallido sole di lì a poco avrebbe inondato i prati di bellissimi fiori. Non i fiori recisi della fioreria sotto casa, ma i fiori di prato liberi e selvaggi. Sentivo già l'odore dell'erba, vedevo una coperta appoggiata per terra e due persone che si baciavano, in mezzo alle margherite appena spuntate. Non un negozio chiuso, buio, pieno di fiori dalle fogge particolari ma straniere ai miei occhi, come i territori inesplorati e irti di pericoli da cui provenivano. E così piano piano mi dimenticai di quei contratti, che finirono prima sul tavolo sepolti da altre mille cianfrusaglie, poi nel mio zaino, poi nello scaffale di camera mia a Udine, finchè ne persi completamente le tracce. Oggi pomeriggio, mentre cercavo alcuni documenti, frugando tra le carte li ho rivisti per la prima volta da allora. A distanza di anni erano ancora tutti lì, intatti. Nessuno mi ha mai chiamato da Infostrada per sapere che fine avessero fatto. Ogni tanto, invece, mi chiedo che fine abbia fatto Giulia. Forse dovrei telefonarle...

I contratti infostrada ancora intonsi, nel gennaio 2005.

mercoledì 16 febbraio 2005

L’infausto presagio

Oggi, mentre scrivevo una lettera di protesta a Trenitalia nella speranza di capire che senso abbia scrivere sul loro sito che la prenotazione online di un treno si può cambiare “fino a un’ora dopo la partenza del treno” se poi invece alla biglietteria mi dicono che si può cambiare “fino a mezzora prima”, ripensavo all’unica lettera di protesta di cui mi ricorderò sempre, per diversi motivi.

Come sicuramente tutti saprete il padre di Pingu, nell’omonimo cartone animato fatto con i pupazzi di plastilina, è un postino. Si vede che sarà sempre estate, al polo sud, perchè invece di andare a scuola o all’asilo il piccolo pinguino Pingu lo segue spesso anche durante le ore di lavoro. Si acquatta sul retro della motoslitta, ruba al papà il cappello da postino per sentirsi come i grandi, e spesso consegna lui direttamente i pacchi agli altri pinguini, anche se magari a volte sbaglia igloo o combina qualche disastro. Faccio questa doverosa premessa per dire che il mio rapporto con le poste ha qualcosa di atavico, o forse semplicemente di morboso. Sarà per questo o semplicemente perchè mi piacciono le cose fuori moda e un po’ da sfigati, fatto sta che amo spedire lettere, foto, biglietti, cd e mille altre cose in eleganti buste imbottite gialle. A qualcuno piace mandare mms con la propria foto mentre cammina per strada o mentre sta seduto sulla tazza del water, e a me piace mandare pacchetti.




Ma torniamo al dunque. Era il 10 dicembre del 2003 ed avevo appena messo giù la cornetta dopo una telefonata durante la quale ero venuto a conoscenza di un fatto sconcertante, che mi aveva inquietato non poco. La persona con cui avevo appena parlato aveva ricevuto un mio pacchettino preparato col cuore praticamente fatto a pezzi. Non c’era semplicemente qualcosa di rotto all’interno, quello può succedere... No, era stato un vero e proprio atto di terrorismo, del quale non so ancora nè l’autore nè tantomeno il movente. Il pacchetto era stato tagliuzzato all’esterno con un oggetto affilato, probabilmente delle forbici, e all’interno c’era una videocassetta spezzata in più parti (non è mica facile spezzare una videocassetta!) e due cd ridotti in tanti piccoli pezzettini, come del resto la lettera, che a stento si riusciva a leggere dopo un’attenta opera di ricomposizione.




Scrissi immediatamente una lettera di protesta che recapitai dopo pochi giorni al mio ufficio postale di fiducia, al quale avevo chiesto anche un parere in merito. Mi dissero che difficilmente avrei ottenuto qualcosa, ma in fondo era una questione di principio.

Dubito che la mia lettera di protesta abbia dato vita in Poste Italiane a una caccia all’uomo o almeno a un’indagine conoscitiva per individuare il barbaro malfattore che in preda a chissà quale raptus era stato capace di tanto. Dubito ancor di più che si sia trattato di un incidente, vista la minuziosa opera di distruzione alla quale l’ignaro pacchetto era stato sottoposto. Dubito infine che si sia trattato di un atto di gelosia di una persona vicina alla vittima (anche perchè poi la vera vittima ero io!). Non potendo arrivare a nessuna conclusione certa di questa vicenda, restava in me la spiacevole sensazione di essere di fronte non a un evento casuale, ma a una perversa macchinazione ai miei danni o, ancora peggio, a un infausto segno del destino. Dopo un così preoccupante avvertimento non avrei più potuto spedire pacchetti a quell’indirizzo così a cuor leggero. E le mie peggiori previsioni, di lì a poco, puntualmente si avverarono.



Riporto quella lettera anche qui, semplicemente perchè certe cose non vanno dimenticate.

Udine, 10/12/2003

Vorrei presentare un reclamo riguardo al danneggiamento di un pacchetto, spedito tramite posta prioritaria, il giorno 9 dicembre 2003, alle ore 12. Il pacchetto, consegnato direttamente allo sportello dell’agenzia Udine 4, nella quale mi reco solitamente, è arrivato al destinatario (a XXXXXX, in via dei XXXXXX, cap XXXXXX) la mattina dopo, 10 dicembre 2003, gravemente danneggiato.
Il pacchetto è stato recapitato direttamente alla portineria del palazzo in cui abita il destinatario (ciò mi porta a escludere il caso di un danneggiamento fortuito successivo alla consegna da parte di estranei) praticamente semiaperto, con all’interno due compact disc fatti a pezzi, una videocassetta spezzata, mentre alcuni fogli e la lettera allegata sembravano tagliati con forbici o oggetti metallici, non semplicemente strappati. Il pacco era, naturalmente, imbottito. Spedisco solitamente compact disc e altri oggetti e mai sono stato testimone di una cosa del genere, soprattutto da quando uso la posta prioritaria. Mi aspettavo che, proprio grazie all'utilizzo di un servizio migliore e più costoso rispetto alla posta ordinaria, fosse dedicata da parte Vostra una maggiore attenzione nel consegnare i pacchetti non solo più velocemente, ma almeno interi.


Non avendo con me la ricevuta del pagamento (che per la posta prioritaria non viene consegnata), il personale dell’agenzia Udine 4 mi ha sconsigliato di presentare una lettera di reclamo, ma credo sia comunque mio dovere segnalare un tale episodio increscioso e, oserei dire, barbaro, per evitare se non altro che succeda di nuovo. Spero che, facendo le dovute segnalazioni, siate in grado di offrire un servizio all’altezza del restyling dell’immagine delle poste che avete realizzato ultimamente, in quanto la percezione di un buon servizio non si ottiene soltanto con un’immagine più accattivante, ma soprattutto grazie all’efficienza e alla serietà della proposta. Il danno economico a mie spese è relativamente contenuto (1,86 euro di spedizione, una decina di euro in tutto per il contenuto distrutto) ma il danno morale per il destinatario nel vedersi recapitato un pacchetto in frantumi è quello che sinceramente avrei voluto evitare.
Essendo un assiduo utilizzatore dei prodotti postali, nonchè possessore di un libretto di risparmio presso l’agenzia Udine 4, spero sinceramente di non dovermi pentire altre volte di aver affidato i miei beni economici e affettivi ai mezzi da Voi offerti.

Cordialmente

Pingu

lunedì 14 febbraio 2005

La cura

Fu proprio nella notte di San Valentino, qualche anno fa, che mi accorsi di quanto fosse difficile fare l'amore con una ragazza. Se potevo dire con certezza che quella tecnicamente era stata la mia prima volta, ancora non sapevo cosa fosse più importante, tra quella ragazza e la perdita della verginità.
Di lei sapevo che era più grande di me e che aveva un rossetto rosso acceso e dei capelli neri neri, lunghi. Di me lei sapeva che era stata la mia prima volta, e che mi piacevano gli Suede. Quella sera le regalai un braccialetto che avevo preso in un piccolo negozio di cose indiane. Era color argento con alcuni elefantini colorati attaccati, mi era piaciuto subito e l'avevo scelto come regalo di San Valentino. Ci eravamo conosciuti appena la settimana prima. Riuscimmo a vederci anche la settimana dopo, e stavolta fare l'amore fu un po' meno complicato. Ma dopo due settimane in cui potevo credere che fosse nata una storia tra di noi, arrivò un evento imprevisto a metterci alla prova: la malattia.



Quel pomeriggio c'era un bellissimo sole. Per essere alla fine marzo non faceva neppure tanto freddo, anzi, ero uscito a piedi e solo con la giacca della tuta. Avevo i brividi lo stesso, ma probabilmente ero solo un po' debole. Non uscivo di casa da circa un mese e mezzo, a parte le due volte in cui i miei mi avevano portato in ospedale. Era iniziato tutto con una febbre come tante altre, magari un po' più alta del solito. Qualche aspirina, forse anche degli antibiotici, visto che non passava, e poi un giorno mi ero svegliato con un prurito strano e delle ghiandole ingrossate dietro il collo. Spesso nel giudicare le malattie ci lasciamo condizionare dall'esteriorità, uno può avere un male incurabile che lo divora dall'interno e magari se ne accorge solo all'ultimo, mentre basta che ci sia qualcosa di insolito nell'aspetto fisico e ci sembra di dover morire da un momento all'altro. Quando mi vidi allo specchio con due bozzi dietro la schiena e ricoperto di puntini rossi, pensai che vent'anni erano troppo pochi...
Meno male che ci si mise l'anziana dottoressa, a tranquillizzarmi. Prima sospettò il morbillo, ma l'avevo già avuto. Poi la varicella, ma le macchie non erano proprio quelle. Infine la mononucleosi, e a quel punto, soddisfatta, diagnosticò. Quando poi dalle analisi venne fuori che non era neanche quella, ma che i valori del sangue erano sballati, si mise le mani nei capelli. Ricorderò sempre la scena di quella povera signora, a un passo dalla pensione, che non sapeva più che pesci pigliare. Dopo due settimane di febbre e puntini rossi, poi, cominciavo anche a sentirmi debilitato, perchè praticamente non riuscivo a mangiare nulla. Una sera superai i 40 di febbre, e i miei genitori mi portarono all'ospedale. Al pronto soccorso mi fecero un'iniezione di paracetamolo e mi accompagnarono a fare delle radiografie al torace, in carrozzella. Era la prima volta che salivo su una carrozzella da quando ero bambino, ma proprio non riuscivo a reggermi in piedi. Mia mamma solo anni dopo mi disse che quella sera fu l'unica volta in cui pensò che potessi davvero morire.



Dopo una settimana la febbre calò, ma rimaneva pur sempre stabile sui 37-38. E i puntini erano sempre lì, sul petto e sulle gambe, in parte anche sul viso. Continuavo a non mangiare, ed ero arrivato a pesare 62 chili, circa 10 in meno di tre settimane prima. Pensavo spesso che di lì a poco sarei morto, ma ero lo stesso curioso di sapere perchè, e nessuno sapeva dirmi che cosa avessi. Cominciai a leggere un'enciclopedia medica che avevo in casa, per cercare tutte le malattie che avessero come sintomo quei puntini rossi. Scartate quelle più improbabili, mi ero convinto di averne una a scelta, tra cancro e aids. Il primo caso lo scartai dopo alcuni giorni di accurati controlli delle feci. Il secondo era forse quello che mi convinceva di più, ma possibile che dopo una sola settimana dal mio primo rapporto sessuale avessi già contratto il virus? L'enciclopedia e il buonsenso lo escludevano, eppure...



Eppure qualche virus doveva essere, dopotutto. Ma di queste cose non potevo parlare con quella che a tutti gli effetti consideravo ancora la mia ragazza, anche se la conoscevo solo da un mese e non la vedevo da quasi tre settimane, ormai. Ci sentivamo spesso per telefono, ma non avevamo molti argomenti di cui parlare. Non sapevamo quasi nulla l'uno dell'altro, non potevamo vederci e io non avevo così tante cose interessanti da poterle dire, dal momento che passavo le mie giornate sdraiato sul letto o a leggere l'enciclopedia medica. Le conversazioni si fecero poco a poco più fredde, e sentivo che la stavo perdendo. L'idea, pur essendo convinto di morire di lì a poco, mi terrorizzava. Valeva davvero la pena di vivere, senza poter avere una ragazza che mi aveva amato piegata in lacrime sulla mia tomba? Ma era ancora troppo presto, e sentivo che il mio ricordo non sarebbe vissuto per sempre in lei come una fiammella sempre accesa nel suo cuore. Vedevo quella fiammella diventare sempre più flebile e poi spegnersi, ma io volevo vivere abbastanza per poterla alimentare ancora, per farla diventare davvero eterna.
Ma le telefonate diventavano sempre più fredde, lontane, distaccate. La chiamavo sempre più di rado, per non soffrirne. Dopo un mese cominciai a presentarmi tutte le mattine alla clinica universitaria, dove mi facevano tutte le analisi del sangue possibili e immaginabili. Nel primo colloquio, il medico che seguiva il mio caso mi chiese se mi drogavo e se avevo avuto rapporti non protetti. Mentii rispondendo di no ad entrambe le domande. Tanto c'è il segreto professionale, pensavo dandomi del cretino tra me e me. Ma allora ero sicurissimo che le cause non erano quelle.



Forse il destino metteva alla prova la forza del mio amore per lei, forse era una malattia psicosomatica, o forse era davvero quella quinta malattia di cui qualcuno parlava, non sapendo più cosa dire. La quinta malattia è quella che si tira fuori quando si sono esaurite le possibilità, ma magari ne esiste anche una sesta, una settima, un'ottava. L'unica cosa certa è che quelle mattine al day hospital mi stavano facendo bene, e ormai avevo solo qualche linea di febbre, i linfonodi gonfi e dei pallini rossi sul petto e sulle gambe. Sulla faccia erano quasi scomparsi, e così mi decisi a chiamare quella che consideravo ancora la mia ragazza. O la ragazza della mia prima volta. Ma forse, ora che ci penso, fu lei a dirmi se potevamo vederci, perchè doveva parlarmi. Lo disse con una voce seria: "si, vengo io da te se non puoi guidare, troviamoci al parco vicino a casa tua". Forse era seria perchè era preoccupata per me...



Quel pomeriggio di fine marzo, mentre camminavo lungo il viale che conduce al parco, avevo un po' paura. Ma non sapevo (o non volevo sapere) di cosa, ed ero contento di poterla rivedere dopo un mese di lontananza. Già, perchè era pur sempre la mia ragazza, anche se dopo esserci visti per due weekend, per quasi un mese non ci eravamo più potuti incontrare. Mentre costeggiavo la roggia con le papere un bel sole primaverile mi accecava, e mi sentivo stranamente bene, pur essendo debolissimo. Ogni passo era come sollevare un macigno, ma era necessario. Probabilmente avevo anche una gran brutta cera, dopo un periodo del genere, ma dovevo renderla parte della mia vita, non potevo continuare a nascondermi da lei come un appestato. Quando la vidi arrivare in lontananza mi dimenticai di ogni discorso che avevo pensato di farle. L'unica cosa che parlava, di me, era lo sguardo. Sperai che capisse tutto da quello. All'inizio era rigida, un po' trattenuta, e io cercavo di non insistere. Mi chiese come stavo, e le raccontai tutto, tralasciando l'aids e l'enciclopedia medica. Ma ancora non capivo se la sua era freddezza o preoccupazione. Le donne per me allora erano un mistero ancor più di adesso, se possibile. Riuscii anche a farla ridere, e le dissi un po' di cose carine. Era vestita con un pastrano etnico un po' strano, ma aveva un viso angelico e triste, ed era più o meno ciò che avevo sempre sognato. E dico più o meno solo perchè i sogni sono sempre un po' confusi, ovattati. Lei piano piano si sciolse, e mentre eravamo seduti su una panchina rossa in quel parco vicino a casa mia le accarezzai i capelli.
Poi cominciò a calare il sole, e si fece più freddo. Essendo anche vestito leggero, in quelle condizioni rischiavo di ammalarmi di nuovo, e così la accompagnai a prendere l'autobus per tornare in stazione. Abitava a qualche chilometro da Udine. Io invece abitavo a qualche centinaio di metri di distanza, ma presi lo stesso un autobus, nella direzione opposta alla sua. Mentre mi sedevo, sentivo salirmi di nuovo la febbre, o forse era la stanchezza perchè non ero più abituato a uscire di casa. Dovevo sembrare proprio uno straccio, quando vidi arrivare il controllore che mi chiese se avevo il biglietto. Pensai che le sfighe vengono sempre tutte insieme, e gli parlai come se stessi per esalare l'ultimo respiro da un momento all'altro: "Mi scusi, ma credo di avere la febbre alta e voglio solo tornare a casa, abito a due fermate da qui.". Lui mi guardò, si rese conto che non stavo mentendo, e mi lasciò scendere.



Nelle settimane seguenti piano piano ripresi le forze, e i puntini sparirono anche dal torace e dalle gambe. Ricominciai a uscire con lei, e capii che fare l'amore poteva essere anche molto bello, ora che sapevo di non essere solo una persona di passaggio nella sua vita. Anni dopo lei mi confessò che quel giorno al parco era venuta per dirmi che non era più il caso di vederci. Non so esattamente cosa fu a farle cambiare idea, non so neppure se ci sarà al mio funerale e se quella fiammella davvero non si spegnerà mai, ma da quel giorno non posso fare a meno di associare amore e guarigione, solitudine e malattia. E devo dire che la morte, mentre eravamo seduti su quella panchina rossa e lei poggiava la testa sulla mia spalla, faceva un po' meno paura.

E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale,
ed io, avrò cura di te.

domenica 6 febbraio 2005

Pensieri di viaggio

A volte mi chiedo come si possa raccontare un viaggio. Ci sono tanti modi, per farlo. Posso raccontarlo come fosse un romanzo, scegliendo di volta in volta i particolari che mi fanno più bello, omettendone altri. Posso mostrare delle diapositive, di quel viaggio. Brevi momenti catturati dal mio occhio e fermati da una macchina, più o meno fedelmente. Ma in nessuno dei due casi, nè con le parole e neppure con le immagini, posso restituire alla memoria quei frammenti di realtà, il più delle volte inutili, che di solito prendono il nome di pensieri. I miei pensieri, mentre viaggio. Ma non c'è nulla di più volatile, mentre ci si muove da un posto all'altro. Non riesco neanche a immaginare tutte le cose che ho pensato spostandomi da un luogo a un'altro, nella mia vita. Ricordo gli argomenti, forse, ma sono come un oceano in cui sto cercando una piccola barchetta bianca. I pensieri, quelli no, non posso certo ritrovarli. Cosa pensavo sul treno Padova - Udine nel febbraio del 1995? E sul Venezia - Palermo nel dicembre 2001? E in macchina, dalle parti di Cesena, nel luglio del 2003?

Solo qualche misero frammento mi è rimasto, di tutti quei pensieri. La tristezza per la morte di Mick Ronson, storico chitarrista di David Bowie, mentre ero in treno verso Padova (Mick era morto nel 1993, ma ero libero di pensarci anche dopo, in fondo). E quant'era bella Shine on degli House of love sul treno per Palermo, mentre vegliavo su Giulia in quella cuccetta. Infine quanta paura di arrivare in ritardo, come Jim in quel caffè, mentre i Belle & Sebastian mi tenevano compagnia in un afoso luglio di pochi anni fa.
Ma non basta, non può bastare a ridarmi quelle cose stupide, inutili e infantili che penso quando viaggio. Non può mostrarmi l'intera gamma di colori dei particolari che solo in quei momenti mi verrebbero in mente. Basta, dovrò portarmi dietro un blocchetto e fermarmi a scrivere di continuo, per non farmeli sfuggire. Oppure potrei fare tantissime foto a cose apparentemente senza nessuna importanza, ma che possono riportarmi a ciò che sfugge e non ritorna mai più in quella forma, come le nuvole.

Per esempio: quale può essere il significato, nella toilette di un treno, della scritta "abbassare il coperchio del wc prima di azionare lo scarico"? Neanche a casa mia lo faccio, figuriamoci in un lurido cesso di un interregionale. Credo che neppure a un milord inglese verrebbe in mente di abbassare il coperchio di un wc sporco e schifoso come quello, se non altro per non prendere delle malattie. No, ci dev'essere un altro motivo oltre al bon ton dei dirigenti di Trenitalia. Forse dicono di farlo per evitare gli schizzi d'acqua dello sciacquone, ma a ben vedere lo sciacquone non c'è. Vedo solo un pedale che apre una botola, e poi tutto finisce in mezzo alle rotaie. Poi, ad un tratto, l'illuminazione. Certo, se uno non abbassa il coperchio, quando apri la botola ti può cadere qualcosa nel buco, che ne so, un cellulare, l'anello di fidanzamento, gli occhiali, il portafogli. Vallo a recuperare, dopo, cercandolo lungo il tratto Milano - Rho...

Quando si viaggia in posti sconosciuti, le scritte sui muri sono una fonte inesauribile di dubbi per chi come me spesso non comprende la realtà delle persone che lo circondano. E così, passeggiando tra le vie per itinerari ogni volta diversi, scopro delle cose che mi lasciano a bocca aperta. Non le meraviglie dell'arte e dei palazzi, ma i misteri dell'uomo. Come i geroglifici nella piramide di Cheope, forse anche queste scritte avranno un giorno lontano il loro Champollion. Io, nella mia umana limitatezza, non posso pormi che come osservatore, chiedendomi con lo stupore dipinto sul volto che senso abbia tutto ciò...

Ma girare in tondo per le strade mi porta anche a piacevoli scoperte. Forse più che tra gli uomini mi trovo a mio agio in mezzo agli elementi della natura. Ed è così che entrando nel "Regno dei fiori", ideato da Nicola De Maria in Piazza Carlo Emanuele II a Torino, dimentico l'ostilità del mondo, il mio ritardo e la fame che mi rende debole e bisognoso. Guardando quell'intreccio di fili luminosi ridivento bambino e mi ricordo tutti i soffioni che avevo in giardino, a primavera. Mi vedo in pantaloncini corti mentre li prendo a calci per vedere cosa succede. Certo, prenderli a calci è meno poetico del soffiarci dolcemente sopra, ma allora non avevo tutti i riguardi che ho adesso. Non troppo tempo fa presi in prestito le parole degli Einsturzende Neubauten per una ragazza, e le dissi:

For you I'll be a dandelion
A thousand flowerettes in the sky
Or just a drop in the ocean

Lei non mi smentì, ma poi diede ragione soprattutto alla seconda affermazione, temo. Pensando a queste cose, in quella piazza piena di luci colorate, ho tirato un calcio a uno dei lampioni decorati da Nicola De Maria ma non ho visto nessun semino, nessun paracadute volare sull'erba. Ho tirato un secondo calcio, e ancora niente. Mentre andavo a mangiare qualcosa, ho pensato: da queste cose ci si accorge che col trascorrere del tempo muore ogni giorno anche una piccola parte di noi. Ho fatto una foto a quel lampione - soffione per ricordarmelo, la prossima volta che penserò a cos'ho pensato, quel giorno, in viaggio.

Uno dei lampioni decorati da Nicola De Maria in Piazza Carlo Emanuele II a Torino.