Fu proprio nella notte di San Valentino, qualche anno fa, che mi accorsi di quanto fosse difficile fare l'amore con una ragazza. Se potevo dire con certezza che quella tecnicamente era stata la mia prima volta, ancora non sapevo cosa fosse più importante, tra quella ragazza e la perdita della verginità.
Di lei sapevo che era più grande di me e che aveva un rossetto rosso acceso e dei capelli neri neri, lunghi. Di me lei sapeva che era stata la mia prima volta, e che mi piacevano gli Suede. Quella sera le regalai un braccialetto che avevo preso in un piccolo negozio di cose indiane. Era color argento con alcuni elefantini colorati attaccati, mi era piaciuto subito e l'avevo scelto come regalo di San Valentino. Ci eravamo conosciuti appena la settimana prima. Riuscimmo a vederci anche la settimana dopo, e stavolta fare l'amore fu un po' meno complicato. Ma dopo due settimane in cui potevo credere che fosse nata una storia tra di noi, arrivò un evento imprevisto a metterci alla prova: la malattia.
Quel pomeriggio c'era un bellissimo sole. Per essere alla fine marzo non faceva neppure tanto freddo, anzi, ero uscito a piedi e solo con la giacca della tuta. Avevo i brividi lo stesso, ma probabilmente ero solo un po' debole. Non uscivo di casa da circa un mese e mezzo, a parte le due volte in cui i miei mi avevano portato in ospedale. Era iniziato tutto con una febbre come tante altre, magari un po' più alta del solito. Qualche aspirina, forse anche degli antibiotici, visto che non passava, e poi un giorno mi ero svegliato con un prurito strano e delle ghiandole ingrossate dietro il collo. Spesso nel giudicare le malattie ci lasciamo condizionare dall'esteriorità, uno può avere un male incurabile che lo divora dall'interno e magari se ne accorge solo all'ultimo, mentre basta che ci sia qualcosa di insolito nell'aspetto fisico e ci sembra di dover morire da un momento all'altro. Quando mi vidi allo specchio con due bozzi dietro la schiena e ricoperto di puntini rossi, pensai che vent'anni erano troppo pochi...
Meno male che ci si mise l'anziana dottoressa, a tranquillizzarmi. Prima sospettò il morbillo, ma l'avevo già avuto. Poi la varicella, ma le macchie non erano proprio quelle. Infine la mononucleosi, e a quel punto, soddisfatta, diagnosticò. Quando poi dalle analisi venne fuori che non era neanche quella, ma che i valori del sangue erano sballati, si mise le mani nei capelli. Ricorderò sempre la scena di quella povera signora, a un passo dalla pensione, che non sapeva più che pesci pigliare. Dopo due settimane di febbre e puntini rossi, poi, cominciavo anche a sentirmi debilitato, perchè praticamente non riuscivo a mangiare nulla. Una sera superai i 40 di febbre, e i miei genitori mi portarono all'ospedale. Al pronto soccorso mi fecero un'iniezione di paracetamolo e mi accompagnarono a fare delle radiografie al torace, in carrozzella. Era la prima volta che salivo su una carrozzella da quando ero bambino, ma proprio non riuscivo a reggermi in piedi. Mia mamma solo anni dopo mi disse che quella sera fu l'unica volta in cui pensò che potessi davvero morire.
Dopo una settimana la febbre calò, ma rimaneva pur sempre stabile sui 37-38. E i puntini erano sempre lì, sul petto e sulle gambe, in parte anche sul viso. Continuavo a non mangiare, ed ero arrivato a pesare 62 chili, circa 10 in meno di tre settimane prima. Pensavo spesso che di lì a poco sarei morto, ma ero lo stesso curioso di sapere perchè, e nessuno sapeva dirmi che cosa avessi. Cominciai a leggere un'enciclopedia medica che avevo in casa, per cercare tutte le malattie che avessero come sintomo quei puntini rossi. Scartate quelle più improbabili, mi ero convinto di averne una a scelta, tra cancro e aids. Il primo caso lo scartai dopo alcuni giorni di accurati controlli delle feci. Il secondo era forse quello che mi convinceva di più, ma possibile che dopo una sola settimana dal mio primo rapporto sessuale avessi già contratto il virus? L'enciclopedia e il buonsenso lo escludevano, eppure...
Eppure qualche virus doveva essere, dopotutto. Ma di queste cose non potevo parlare con quella che a tutti gli effetti consideravo ancora la mia ragazza, anche se la conoscevo solo da un mese e non la vedevo da quasi tre settimane, ormai. Ci sentivamo spesso per telefono, ma non avevamo molti argomenti di cui parlare. Non sapevamo quasi nulla l'uno dell'altro, non potevamo vederci e io non avevo così tante cose interessanti da poterle dire, dal momento che passavo le mie giornate sdraiato sul letto o a leggere l'enciclopedia medica. Le conversazioni si fecero poco a poco più fredde, e sentivo che la stavo perdendo. L'idea, pur essendo convinto di morire di lì a poco, mi terrorizzava. Valeva davvero la pena di vivere, senza poter avere una ragazza che mi aveva amato piegata in lacrime sulla mia tomba? Ma era ancora troppo presto, e sentivo che il mio ricordo non sarebbe vissuto per sempre in lei come una fiammella sempre accesa nel suo cuore. Vedevo quella fiammella diventare sempre più flebile e poi spegnersi, ma io volevo vivere abbastanza per poterla alimentare ancora, per farla diventare davvero eterna.
Ma le telefonate diventavano sempre più fredde, lontane, distaccate. La chiamavo sempre più di rado, per non soffrirne. Dopo un mese cominciai a presentarmi tutte le mattine alla clinica universitaria, dove mi facevano tutte le analisi del sangue possibili e immaginabili. Nel primo colloquio, il medico che seguiva il mio caso mi chiese se mi drogavo e se avevo avuto rapporti non protetti. Mentii rispondendo di no ad entrambe le domande. Tanto c'è il segreto professionale, pensavo dandomi del cretino tra me e me. Ma allora ero sicurissimo che le cause non erano quelle.
Forse il destino metteva alla prova la forza del mio amore per lei, forse era una malattia psicosomatica, o forse era davvero quella quinta malattia di cui qualcuno parlava, non sapendo più cosa dire. La quinta malattia è quella che si tira fuori quando si sono esaurite le possibilità, ma magari ne esiste anche una sesta, una settima, un'ottava. L'unica cosa certa è che quelle mattine al day hospital mi stavano facendo bene, e ormai avevo solo qualche linea di febbre, i linfonodi gonfi e dei pallini rossi sul petto e sulle gambe. Sulla faccia erano quasi scomparsi, e così mi decisi a chiamare quella che consideravo ancora la mia ragazza. O la ragazza della mia prima volta. Ma forse, ora che ci penso, fu lei a dirmi se potevamo vederci, perchè doveva parlarmi. Lo disse con una voce seria: "si, vengo io da te se non puoi guidare, troviamoci al parco vicino a casa tua". Forse era seria perchè era preoccupata per me...
Quel pomeriggio di fine marzo, mentre camminavo lungo il viale che conduce al parco, avevo un po' paura. Ma non sapevo (o non volevo sapere) di cosa, ed ero contento di poterla rivedere dopo un mese di lontananza. Già, perchè era pur sempre la mia ragazza, anche se dopo esserci visti per due weekend, per quasi un mese non ci eravamo più potuti incontrare. Mentre costeggiavo la roggia con le papere un bel sole primaverile mi accecava, e mi sentivo stranamente bene, pur essendo debolissimo. Ogni passo era come sollevare un macigno, ma era necessario. Probabilmente avevo anche una gran brutta cera, dopo un periodo del genere, ma dovevo renderla parte della mia vita, non potevo continuare a nascondermi da lei come un appestato. Quando la vidi arrivare in lontananza mi dimenticai di ogni discorso che avevo pensato di farle. L'unica cosa che parlava, di me, era lo sguardo. Sperai che capisse tutto da quello. All'inizio era rigida, un po' trattenuta, e io cercavo di non insistere. Mi chiese come stavo, e le raccontai tutto, tralasciando l'aids e l'enciclopedia medica. Ma ancora non capivo se la sua era freddezza o preoccupazione. Le donne per me allora erano un mistero ancor più di adesso, se possibile. Riuscii anche a farla ridere, e le dissi un po' di cose carine. Era vestita con un pastrano etnico un po' strano, ma aveva un viso angelico e triste, ed era più o meno ciò che avevo sempre sognato. E dico più o meno solo perchè i sogni sono sempre un po' confusi, ovattati. Lei piano piano si sciolse, e mentre eravamo seduti su una panchina rossa in quel parco vicino a casa mia le accarezzai i capelli.
Poi cominciò a calare il sole, e si fece più freddo. Essendo anche vestito leggero, in quelle condizioni rischiavo di ammalarmi di nuovo, e così la accompagnai a prendere l'autobus per tornare in stazione. Abitava a qualche chilometro da Udine. Io invece abitavo a qualche centinaio di metri di distanza, ma presi lo stesso un autobus, nella direzione opposta alla sua. Mentre mi sedevo, sentivo salirmi di nuovo la febbre, o forse era la stanchezza perchè non ero più abituato a uscire di casa. Dovevo sembrare proprio uno straccio, quando vidi arrivare il controllore che mi chiese se avevo il biglietto. Pensai che le sfighe vengono sempre tutte insieme, e gli parlai come se stessi per esalare l'ultimo respiro da un momento all'altro: "Mi scusi, ma credo di avere la febbre alta e voglio solo tornare a casa, abito a due fermate da qui.". Lui mi guardò, si rese conto che non stavo mentendo, e mi lasciò scendere.
Nelle settimane seguenti piano piano ripresi le forze, e i puntini sparirono anche dal torace e dalle gambe. Ricominciai a uscire con lei, e capii che fare l'amore poteva essere anche molto bello, ora che sapevo di non essere solo una persona di passaggio nella sua vita. Anni dopo lei mi confessò che quel giorno al parco era venuta per dirmi che non era più il caso di vederci. Non so esattamente cosa fu a farle cambiare idea, non so neppure se ci sarà al mio funerale e se quella fiammella davvero non si spegnerà mai, ma da quel giorno non posso fare a meno di associare amore e guarigione, solitudine e malattia. E devo dire che la morte, mentre eravamo seduti su quella panchina rossa e lei poggiava la testa sulla mia spalla, faceva un po' meno paura.
Di lei sapevo che era più grande di me e che aveva un rossetto rosso acceso e dei capelli neri neri, lunghi. Di me lei sapeva che era stata la mia prima volta, e che mi piacevano gli Suede. Quella sera le regalai un braccialetto che avevo preso in un piccolo negozio di cose indiane. Era color argento con alcuni elefantini colorati attaccati, mi era piaciuto subito e l'avevo scelto come regalo di San Valentino. Ci eravamo conosciuti appena la settimana prima. Riuscimmo a vederci anche la settimana dopo, e stavolta fare l'amore fu un po' meno complicato. Ma dopo due settimane in cui potevo credere che fosse nata una storia tra di noi, arrivò un evento imprevisto a metterci alla prova: la malattia.
Quel pomeriggio c'era un bellissimo sole. Per essere alla fine marzo non faceva neppure tanto freddo, anzi, ero uscito a piedi e solo con la giacca della tuta. Avevo i brividi lo stesso, ma probabilmente ero solo un po' debole. Non uscivo di casa da circa un mese e mezzo, a parte le due volte in cui i miei mi avevano portato in ospedale. Era iniziato tutto con una febbre come tante altre, magari un po' più alta del solito. Qualche aspirina, forse anche degli antibiotici, visto che non passava, e poi un giorno mi ero svegliato con un prurito strano e delle ghiandole ingrossate dietro il collo. Spesso nel giudicare le malattie ci lasciamo condizionare dall'esteriorità, uno può avere un male incurabile che lo divora dall'interno e magari se ne accorge solo all'ultimo, mentre basta che ci sia qualcosa di insolito nell'aspetto fisico e ci sembra di dover morire da un momento all'altro. Quando mi vidi allo specchio con due bozzi dietro la schiena e ricoperto di puntini rossi, pensai che vent'anni erano troppo pochi...
Meno male che ci si mise l'anziana dottoressa, a tranquillizzarmi. Prima sospettò il morbillo, ma l'avevo già avuto. Poi la varicella, ma le macchie non erano proprio quelle. Infine la mononucleosi, e a quel punto, soddisfatta, diagnosticò. Quando poi dalle analisi venne fuori che non era neanche quella, ma che i valori del sangue erano sballati, si mise le mani nei capelli. Ricorderò sempre la scena di quella povera signora, a un passo dalla pensione, che non sapeva più che pesci pigliare. Dopo due settimane di febbre e puntini rossi, poi, cominciavo anche a sentirmi debilitato, perchè praticamente non riuscivo a mangiare nulla. Una sera superai i 40 di febbre, e i miei genitori mi portarono all'ospedale. Al pronto soccorso mi fecero un'iniezione di paracetamolo e mi accompagnarono a fare delle radiografie al torace, in carrozzella. Era la prima volta che salivo su una carrozzella da quando ero bambino, ma proprio non riuscivo a reggermi in piedi. Mia mamma solo anni dopo mi disse che quella sera fu l'unica volta in cui pensò che potessi davvero morire.
Dopo una settimana la febbre calò, ma rimaneva pur sempre stabile sui 37-38. E i puntini erano sempre lì, sul petto e sulle gambe, in parte anche sul viso. Continuavo a non mangiare, ed ero arrivato a pesare 62 chili, circa 10 in meno di tre settimane prima. Pensavo spesso che di lì a poco sarei morto, ma ero lo stesso curioso di sapere perchè, e nessuno sapeva dirmi che cosa avessi. Cominciai a leggere un'enciclopedia medica che avevo in casa, per cercare tutte le malattie che avessero come sintomo quei puntini rossi. Scartate quelle più improbabili, mi ero convinto di averne una a scelta, tra cancro e aids. Il primo caso lo scartai dopo alcuni giorni di accurati controlli delle feci. Il secondo era forse quello che mi convinceva di più, ma possibile che dopo una sola settimana dal mio primo rapporto sessuale avessi già contratto il virus? L'enciclopedia e il buonsenso lo escludevano, eppure...
Eppure qualche virus doveva essere, dopotutto. Ma di queste cose non potevo parlare con quella che a tutti gli effetti consideravo ancora la mia ragazza, anche se la conoscevo solo da un mese e non la vedevo da quasi tre settimane, ormai. Ci sentivamo spesso per telefono, ma non avevamo molti argomenti di cui parlare. Non sapevamo quasi nulla l'uno dell'altro, non potevamo vederci e io non avevo così tante cose interessanti da poterle dire, dal momento che passavo le mie giornate sdraiato sul letto o a leggere l'enciclopedia medica. Le conversazioni si fecero poco a poco più fredde, e sentivo che la stavo perdendo. L'idea, pur essendo convinto di morire di lì a poco, mi terrorizzava. Valeva davvero la pena di vivere, senza poter avere una ragazza che mi aveva amato piegata in lacrime sulla mia tomba? Ma era ancora troppo presto, e sentivo che il mio ricordo non sarebbe vissuto per sempre in lei come una fiammella sempre accesa nel suo cuore. Vedevo quella fiammella diventare sempre più flebile e poi spegnersi, ma io volevo vivere abbastanza per poterla alimentare ancora, per farla diventare davvero eterna.
Ma le telefonate diventavano sempre più fredde, lontane, distaccate. La chiamavo sempre più di rado, per non soffrirne. Dopo un mese cominciai a presentarmi tutte le mattine alla clinica universitaria, dove mi facevano tutte le analisi del sangue possibili e immaginabili. Nel primo colloquio, il medico che seguiva il mio caso mi chiese se mi drogavo e se avevo avuto rapporti non protetti. Mentii rispondendo di no ad entrambe le domande. Tanto c'è il segreto professionale, pensavo dandomi del cretino tra me e me. Ma allora ero sicurissimo che le cause non erano quelle.
Forse il destino metteva alla prova la forza del mio amore per lei, forse era una malattia psicosomatica, o forse era davvero quella quinta malattia di cui qualcuno parlava, non sapendo più cosa dire. La quinta malattia è quella che si tira fuori quando si sono esaurite le possibilità, ma magari ne esiste anche una sesta, una settima, un'ottava. L'unica cosa certa è che quelle mattine al day hospital mi stavano facendo bene, e ormai avevo solo qualche linea di febbre, i linfonodi gonfi e dei pallini rossi sul petto e sulle gambe. Sulla faccia erano quasi scomparsi, e così mi decisi a chiamare quella che consideravo ancora la mia ragazza. O la ragazza della mia prima volta. Ma forse, ora che ci penso, fu lei a dirmi se potevamo vederci, perchè doveva parlarmi. Lo disse con una voce seria: "si, vengo io da te se non puoi guidare, troviamoci al parco vicino a casa tua". Forse era seria perchè era preoccupata per me...
Quel pomeriggio di fine marzo, mentre camminavo lungo il viale che conduce al parco, avevo un po' paura. Ma non sapevo (o non volevo sapere) di cosa, ed ero contento di poterla rivedere dopo un mese di lontananza. Già, perchè era pur sempre la mia ragazza, anche se dopo esserci visti per due weekend, per quasi un mese non ci eravamo più potuti incontrare. Mentre costeggiavo la roggia con le papere un bel sole primaverile mi accecava, e mi sentivo stranamente bene, pur essendo debolissimo. Ogni passo era come sollevare un macigno, ma era necessario. Probabilmente avevo anche una gran brutta cera, dopo un periodo del genere, ma dovevo renderla parte della mia vita, non potevo continuare a nascondermi da lei come un appestato. Quando la vidi arrivare in lontananza mi dimenticai di ogni discorso che avevo pensato di farle. L'unica cosa che parlava, di me, era lo sguardo. Sperai che capisse tutto da quello. All'inizio era rigida, un po' trattenuta, e io cercavo di non insistere. Mi chiese come stavo, e le raccontai tutto, tralasciando l'aids e l'enciclopedia medica. Ma ancora non capivo se la sua era freddezza o preoccupazione. Le donne per me allora erano un mistero ancor più di adesso, se possibile. Riuscii anche a farla ridere, e le dissi un po' di cose carine. Era vestita con un pastrano etnico un po' strano, ma aveva un viso angelico e triste, ed era più o meno ciò che avevo sempre sognato. E dico più o meno solo perchè i sogni sono sempre un po' confusi, ovattati. Lei piano piano si sciolse, e mentre eravamo seduti su una panchina rossa in quel parco vicino a casa mia le accarezzai i capelli.
Poi cominciò a calare il sole, e si fece più freddo. Essendo anche vestito leggero, in quelle condizioni rischiavo di ammalarmi di nuovo, e così la accompagnai a prendere l'autobus per tornare in stazione. Abitava a qualche chilometro da Udine. Io invece abitavo a qualche centinaio di metri di distanza, ma presi lo stesso un autobus, nella direzione opposta alla sua. Mentre mi sedevo, sentivo salirmi di nuovo la febbre, o forse era la stanchezza perchè non ero più abituato a uscire di casa. Dovevo sembrare proprio uno straccio, quando vidi arrivare il controllore che mi chiese se avevo il biglietto. Pensai che le sfighe vengono sempre tutte insieme, e gli parlai come se stessi per esalare l'ultimo respiro da un momento all'altro: "Mi scusi, ma credo di avere la febbre alta e voglio solo tornare a casa, abito a due fermate da qui.". Lui mi guardò, si rese conto che non stavo mentendo, e mi lasciò scendere.
Nelle settimane seguenti piano piano ripresi le forze, e i puntini sparirono anche dal torace e dalle gambe. Ricominciai a uscire con lei, e capii che fare l'amore poteva essere anche molto bello, ora che sapevo di non essere solo una persona di passaggio nella sua vita. Anni dopo lei mi confessò che quel giorno al parco era venuta per dirmi che non era più il caso di vederci. Non so esattamente cosa fu a farle cambiare idea, non so neppure se ci sarà al mio funerale e se quella fiammella davvero non si spegnerà mai, ma da quel giorno non posso fare a meno di associare amore e guarigione, solitudine e malattia. E devo dire che la morte, mentre eravamo seduti su quella panchina rossa e lei poggiava la testa sulla mia spalla, faceva un po' meno paura.
E guarirai da tutte le malattie,
perché sei un essere speciale,
ed io, avrò cura di te.
ok. ma non ci puoi lasciare così. senza dirci cosa cacchio ti eri preso!!
RispondiEliminasi pensava avessi l'aids all'epoca!!!
RispondiEliminala morte ti fa meno paura?Ma come si fa a dire ste cose..ma vergognati salame d'un pingu,,almeno abbi rispetto per tutte le persone ke skiattano ogni giorno!e prima o poi....eh he eh he
RispondiEliminaChe invidia
RispondiEliminaufffffff...che palle di blog!
RispondiEliminamagari lo sapessi, che cosa ho avuto! alla fine la lettera di dimissioni dal day hospital, con un linguaggio un po' sfuggente, diceva che avevano escluso questo e quell'altro, ma non si capiva cosa non avessero escluso. Quando mia mamma lo chiese al medico (io non avevo nè la forza nè la voglia di farlo) lui le rispose che comunque sembrava stessi migliorando, e quindi perchè crucciarsi! in effetti, dopo circa 40 giorni, la febbre e i puntini passarono.
RispondiEliminail test per l'aids, comunque, diede esito negativo...
ufff...
RispondiEliminache bello questo post. secondo me, a rischio di rasentare il romanticismo più vieto e trito, la compagnia di una donna può davvero annullare le paure della morte e del Nulla. l'Uomo in fondo è un animale sociale, un animale che ha bisogno di rassicurazioni. e quale migliore rassicurazione - per sé, per i propri sentimenti - del sentimento che una donna prova nei nostri confronti?
RispondiEliminanon ho capito se adesso siate ancora insieme, però complimenti non per la storia in sé ma per come l'hai scritta. e per la foto con le papere. e perché ami.
RispondiEliminaparlavi di una primavera di circa 10 anni fa e hai messo le foto di adesso...un inverno di dieci anni dopo...vorrà dire qualcosa...troppi rimpianti caro mio, troppe paure
RispondiEliminaluca, se tu fossi il mio psicanalista mi sarei già suicidato...
RispondiEliminapotrebbe essere un'idea...
RispondiElimina;)