La cronaca di queste feste di fine 2004 offriva spunti per più di una riflessione, e non solo sulla tragedia in Asia in sè, ma sul senso stesso della vita. Se ci limitassimo a recepire passivamente l'orrore per le vittime della catastrofe che ci viene propinato dai telegiornali ogni giorno, non credo che servirebbe a molto. Per fortuna nel mare di articoli che ha inondato la stampa in queste ultime due settimane (certo, anche il nostro lessico risentirà dei fatti di questo periodo, e per molto tempo ancora) c'è stato anche lo spazio per qualche analisi più lucida dei fatti. Qualcuno ha provato a vedere le cose in un'ottica più ampia. Qualcun altro ha fatto appello alla saggezza dei tempi antichi, del resto quale occasione migliore per farlo. Altri ancora hanno cercato di leggere gli eventi da un punto di vista che non fosse soltanto quello dei villaggi vacanze rasi al suolo o della ricostruzione, ma della cultura e dell'anima di popoli che conosciamo troppo poco.
Io in questi giorni mi sono ricordato di un episodio accaduto nell'agosto del 1993, credo. Era l'ultima vacanza che facevo con i miei genitori, e per accompagnarli avevo imposto una meta di mio gradimento: Rodi. Essendo l'albergo vicino alla spiaggia ma lontano da qualsiasi centro abitato, però, non avevo grosse possibilità di muovermi, o almeno di starmene per conto mio. Loro erano con un'altra coppia di amici, e di certo non potevano darmi ciò di cui avevo bisogno in quella vacanza (una meravigliosa ragazza coi riccioli castani che avevo visto in spiaggia, anche lei in compagnia dei genitori). Troppo timido per abbordare le mie coetanee, provavo un senso di malessere a far finta di divertirmi, e così l'unica soluzione era chiudermi in me stesso. La serratura fu, provvidenziale, l'Oblomov di Goncarov, che mi era stato assegnato come lettura estiva per la scuola. Leggerlo in spiaggia rappresentava per me l'unica vera boccata d'ossigeno giornaliera, il mio spazio di libertà inattaccabile, la mia oasi incontaminata. Fu facile perdermi in quelle pagine, che raccontavano esattamente ciò che pensavo sarebbe stata la mia vita, pagina dopo pagina. A posteriori posso dire che non sbagliavo poi di molto.
Giunto al capitolo conclusivo mi trovavo sdraiato sul letto della mia stanza, in albergo, quando ad un tratto sentii tremare le pareti abbastanza forte da capire che non si trattava del rumore di un aereo in atterraggio nel vicino aeroporto. Dopo pochi secondi ero in corridoio, ma pareva già tutto finito. Rimasi molto scosso, in fondo era il terremoto più forte di cui avessi coscienza, all'epoca, visto che quello precedente mi aveva colto nel sonno a pochi mesi d'età. In ogni caso, visto che l'albergo non era crollato, ero abbastanza tranquillo per rientrare in camera e finire di leggere il libro. E così ho fatto. Letta l'ultima pagina, lo ricordo benissimo, cominciai a piangere senza riuscire a trattenermi. Forse per la storia triste, per la mia vita o per la paura di poco prima, chissà. Mi rimarrà per sempre una strana sensazione, pensando a Oblomov e al terremoto. Certo, nell'universo non siamo che un minuscolo puntino ma a volte, senza che se ne accorga nessuno, anche dentro di noi arrivano i terremoti, o gli tsunami, a spazzare via tutto quello che abbiamo costruito, lasciando solo una scia di cadaveri e di macerie.
«Andiamo fino al boschetto», disse, dandogli il cestino da portare;
poi aprì l'ombrellino, si rassettò l'abito e si avviò.
«Perché non è allegro?», gli chiese.
«Non lo so, Ol'ga Sergeevna. Perché dovrei essere allegro? E come?».
«Faccia qualcosa, frequenti di più la gente».
«Fare qualcosa! Certo, si può, quando c'è uno scopo. Che scopo ho io? Nessuno».
«Lo scopo è vivere».
«Quando non si sa perché si vive, si vive così, come capita, un giorno dopo l'altro;
ci si rallegra che sia passata una giornata e sia arrivata la notte, e si affoga nel sonno
il tedioso interrogativo: perché si è vissuto oggi, perché si vivrà domani?».
Ella lo ascoltava in silenzio, con un che di cupo nelle sopracciglia aggrottate;
e sulle labbra strisciava, come una serpe, una espressione tra incredula e sprezzante.
«Perché si è vissuto?», ripeté. «Forse c'è qualcuno la cui esistenza è inutile?».
«Forse. La mia, per esempio», disse lui.
«Lei non sa ancora qual è lo scopo della sua vita?», domandò Ol'ga fermandosi.
«Non ci credo. Lei si calunnia: altrimenti non meriterebbe di vivere».
«Ho già superato il punto in cui deve esserci la vita, ed al di là di esso non c'è più nulla».
Sospirò, e lei sorrise.
«Nulla?», ripeté Ol'ga in tono interrogativo, ma vivace, allegro, ridendo, come se
non gli credesse, e prevedesse invece che al di là di esso qualche cosa lo attendesse.
«Lei ride», disse Oblomov, «ma è così!».
Ella continuò a camminare adagio, a capo chino.
«Per che cosa, per chi vivrò?», disse lui seguendola.
«Che cosa dovrei cercare, a che cosa dovrebbero mirare i miei pensieri?
I miei propositi? Il fiore della vita è appassito, rimangono solo le spine».
Camminavano adagio, lei ascoltando in silenzio;
a un certo punto strappò un ramoscello di lillà e lo diede a Oblomov, senza guardarlo.
«Che cos'è?», domandò lui confuso.
«Lo vede: un ramoscello».
«Che ramoscello?», disse lui, guardandola con gli occhi spalancati.
«Di lillà»».
«Lo so... ma che cosa significa?».
«Il fiore della vita e...».
Egli si fermò; e anche lei.
«E...?», disse Oblomov in tono interrogativo.
«Il mio dispetto», disse lei fissandolo con uno sguardo intenso
e un sorriso che diceva: so quello che faccio.
La nube di impenetrabilità che la avvolgeva si dissipò.
Il suo sguardo si fece eloquente e comprensibile.
Era come se avesse aperto di proposito un libro a una pagina a lei
nota e permettesse di leggere un brano segreto.
«Dunque, posso sperare...», disse egli all'improvviso, raggiante di gioia.
«Tutto! Ma...». E tacque. Di colpo Oblomov parve resuscitato e fu lei, ora, che
stentò a riconoscerlo: il viso rannuvolato e sonnolento si era trasformato d'incanto,
gli occhi si erano aperti, le guance colorite, il pensiero si era messo in moto,
nello sguardo brillavano desiderio e volontà.
Ella lesse chiaramente nel muto gioco dei suoi lineamenti,
che a Oblomov era apparso all'improvviso lo scopo della vita.
Sophie Anderson (1823-1903): "Girl with Lilac".
Oblomov lanciava sguardi estatici furtivi al capo, alla figura, ai riccioli di lei,
ora stringeva al cuore il ramoscello.
«È tutto mio! Mio!», si ripeteva pensoso e incredulo.
cineforum oblomov???
RispondiEliminaauguri buoni tsunami a te e spero un giorno di vederne uno nella laguna di marano
RispondiEliminavergognatevi tu e oblomov!
RispondiEliminaaltre spiagge, anni simili... io allo stesso modo leggevo chiusa in me stessa, proprio col desiderio di scomparire, Anna Karenina...
RispondiEliminaciao!
rosa
oblomov prima o poi lo leggo. anche solo per il fatto che è un romanzo russo :-)
dovresti vedere il film di mikhalkov, se ancora non l'hai fatto.
RispondiEliminail mio computer si chiama Ilya Ilych, perche' ci assomiglia.