L’altra sera, mentre guidavo in autostrada nei pressi di Modena, mi sono fermato in un autogrill perchè dovevo andare in bagno. Era una serata abbastanza calda e quando sono sceso dalla macchina, forse per il passaggio dal freddo artico dal condizionatore all’afa estiva della pianura emiliana, mi sentivo un po’ girare la testa. Poco dopo, mentre mi sciacquavo le mani prima di uscire dal bagno, guardavo la mia immagine riflessa sullo specchio. “Quante ne abbiamo passate, eh?”, dissi alla mia immagine riflessa, “su, però non fare quella faccia adesso...certo, alcune cose sarebbero un po’ da aggiustare, ma pensa quante avventure avrai da raccontare ai tuoi figli, ai tuoi nipoti, un giorno”. Mi fermai un attimo, come se stessi aspettando che la mia immagine riflessa, dubbiosa, mi rispondesse, e continuai: “Ok, alcune cose magari saranno da riaggiustare, ma sarà il tempo stesso a nobilitarle, a renderle epiche come la morte di Di Caprio in Titanic, e loro ti guarderanno con ammirazione, vedrai. Ma poi vorresti davvero essere diverso?”. La mia immagine riflessa non rispondeva, ma sembrava un po’ più soddisfatta, e così sono uscito, sotto lo sguardo accusatore dell’uomo delle pulizie che voleva una mancia. Poi sono entrato nel bar e ho cominciato a guardare lo scaffale dei dolci. C’erano le madeleines con l’uvetta che mi piacciono tanto, c’erano le chewingum a forma di occhio, c’erano i nippon! Alla fine ho preso un sacchetto di amaretti, lasciando con rimpianto un portachiavi a forma di pesce in bella mostra accanto alla cassa, e sono uscito.
Arrivato alla macchina, mentre stavo infilando le chiavi nella serratura, ho visto che sul sedile di dietro era sdraiato un pastore tedesco enorme, che mi guardava placido. “E tu che ci fai qui”, gli dissi, “e non mi si apre neanche la porta della macchina, cazzo!”. Mentre mi interrogavo sul da farsi, il mio cervello aveva già elaborato la risposta. Al mio fianco un’altra golf verde, e stavolta era la mia. Salutato il cane con un “ciao cane” quasi dispiaciuto, sono salito in macchina. Mentre lasciavo alle mie spalle quell’autogrill, nell’autoradio partiva “il ragazzo di ghiaccio” di Dino, e ho cominciato anch'io a cantare, assieme a lui:
Quelli come me non sanno piangere
Se te ne vai non sei la prima e non sei l'ultima
Quelli come me stan soli
Forse non avrò mai niente
In un mondo che non m'ha cercato mai
Tra la gente che non mi regala un sorriso
Io ti perderò ma credi
Forse a modo mio ti amo
Anche se non so parlarti
Anche se non so cercarti
(Dino - Il ragazzo di ghiaccio; 1965, Bardotti-Morricone)
Chissà, magari ai miei nipoti racconterò anche una storia in cui ero un cinico bastardo che faceva soffrire le donne e poi le abbandonava, come Dino. Magari a loro potrebbe servire. Non c’è poi qualcuno che sostiene che è meglio fare del male agli altri prima che siano gli altri a farlo a noi? Però alla fine anche Dino si tradisce con quel “forse a modo mio ti amo”, e ne esce da perdente solitario più che da insensibile sfruttatore. No, mi sa proprio che non riuscirei mai a dire ai miei nipoti che quello che ho letto tempo fa su quel muro, mentre passeggiavo per Gallipoli, è la verità.